lunedì 31 dicembre 2012

Di Piero Alberio

Non siamo nulla
Precipitiamo nella tenebra è saremo annientati.
Eppure in questa tenebra, pensa; teniamo il perno segreto di un’idea la cui ruota viva gira negli anni avvenire.
(STEPHEN SPENDER Trial of a Judge)

Quando lessi per la prima volta Las Americas in un certo senso sapevo già a cosa andavo incontro, non era una novità, avevo già letto scrittori del calibro di Dostoevskij,
Celine, Miller, Bukowski... quindi conoscendo Giò e il suo modo di scrivere immaginavo Già cosa andavo a leggere, ed invece non fu proprio così. Dalle prime pagine lette capii subito che mi ritrovavo davanti ad un nuovo modo di concepire la scrittura, un romanzo in prima persona, o, se preferite un’autobiografia in forma di romanzo come lui stesso ama definirlo. Effettivamente il ritmo e la narrazione sono propri del romanzo. Las Americas è la storia di un paio di giovani squattrinati nell’Italia del 90 che attraverso varie peripezie riescono a girovagare per l’intera Europa giungendo fino in Danimarca. Cosa succedeva intanto in Italia nei primi del 90? Ci avviavamo verso un sorta di benessere che l’industrializzazione stava arrecando al paese quindi per molti giovani non era più un sogno vano poter sognare l’America, da quest’altra parte l’America era Roma, in un certo senso, come in primis potei constatare dal mio primo viaggio a Roma nel 94. In quegli anni Roma viveva un periodo di splendore Senza eguali; poeti, artisti, dilettanti, turisti, debosciati e fannulloni da ogni parte del mondo in generale erano tutti concentrati lì come nelle capitali europee, complice anche lo strapotere del dollaro sulla lira. Mi ricordo benissimo dei Punk a Piazza di Spagna, dei metallari e dei dark a Piazza del Popolo, ed insomma ognuno aveva il suo punto di ritrovo nella Capitale. Giò scrive e descrive questo mondo, fatto in parte di artisti, in parte di autentici furfanti. Di geni incompresi, di paranoici. Il romanzo in massima parte è una storia di cimici in case occupate, di sbronze colossali, di postriboli, di impieghi saltuari di prestiti, truffe, autostop, di odore dolciastro nelle stazioni ferroviarie, amori fugaci, di sesso, droga, e chi più ne ha più ne metta; di vita insomma. Tuttavia, dopo un certo periodo di tempo, l’atmosfera del libro inizia a prendere una certa vena melanconica, si incomincia a ragionare sul perché di certe cose. C’è tutto un mondo di cose con le quali vivete dall’infanzia, cose che supponevate fossero per loro natura incomunicabili e qualcuno è riuscito a comunicarle. L’effetto è l’abolizione, anche se momentanea della solitudine in cui vive l’essere umano. In Las Americas quando leggete certi passaggi sentite che la mente sua e la vostra non sono che una sola cosa, v’accorgerete ch’egli sa tutto di voi anche se non vi ha mai sentito nominare, che esiste un mondo aldilà dello spazio e del tempo in cui voi e lui siete uniti. Ma che genere di esperienze, di che specie di essere umani scrive Giò? Scrive dell’uomo della strada e, incidentalmente, è un vero peccato che sia una strada piena di postriboli. Questo è il prezzo che si paga quando si abbandona la propria terra, quando cioè si trasportano le proprie radici in un terreno meno profondo. L’esilio è probabilmente più dannoso per un romanziere che per un pittore o anche un poeta, perché ha l’effetto di fargli perdere i contatti con la vita e restringere il suo raggio d’azione alla strada, al caffè, alla chiesa.
Quindi l’intero libro è su questa vena, più o meno. Come mai così mostruose banalità sono tanto avvincenti? Semplicemente perché tutta l’atmosfera è profondamente familiare, e si ha per tutto il tempo la sensazione che queste cose accadano a noi. E si ha questa sensazione perché qualcuno ha deciso di abbandonare l’antico linguaggio diplomatico del comune romanzo e trasportare all’aria aperta la real-politik. La spietata ruvidezza con cui parlano i personaggi in LAS AMERICAS è rarissima nella prosa narrativa, ma estremamente comune nella vita reale; ho inteso infinite volte simili conversazioni tra gente che non s’accorgeva nemmeno di parlare grossolanamente. Quando appare un libro come LAS AMERICAS è anche troppo naturale che la prima cosa che salti davanti
agli occhi del lettore medio sia la sua oscenità. O si resta scandalizzati e disgustati o decisi fermissimamente a non lasciarsene impressionare. Quest’ultima è forse la reazione più comune, col risultato che spesso libri impubblicabili ottengono meno attenzione di quando meritino. Ormai è un po’ una moda affermare che nulla è più facile dello scrivere un libro osceno, e chi lo scrive lo fa solo per crearsi pubblicità e guadagnare quattrini. La prova che non è questo il caso, è data dal fatto che in LAS AMERICAS il lettore calandosi nella parte vive le stesse identiche sensazioni, non un sesso gioioso romantico ed illusorio come ci viene molto spesso venduto in TV, ma bensì di un sesso spinto da una voragine di vuotezza interiore che permane l’atmosfera
del momento. Sul proposito citò una frase di George Orwel sul fatto: se fosse facile fare quattrini con parole sporche, ci sarebbe molta più gente a dedicarvisi. La visione di Giò è profondamente affine senza dubbio a quella di Whitman, Miller, Celine, Bukowski, e compagnia bella, nella quale dopo varie dissolutezze in giro per l’Europa egli torna al garage, si siede e guarda tutte le storie passate da quel posto dove tutto ebbe inizio, in una sorta di mistica accettazione delle cose così come sono. Per concludere, io caldamente raccomando a chiunque non l’abbia ancora fatto, di leggere LAS AMERICAS, anche se certe sue parti vi scandalizzeranno, vi resterà impresse nella memoria. E anche un libro “importante” in un senso diverso da quello in cui questo termine viene usato generalmente. Di solito vengono definiti importanti quei romanzi (da autogrill) che rappresentano una “terribile condanna” di questo o di quello, o che introducono qualche innovazione tecnica. Nulla di ciò vale per LAS AMERICAS.