lunedì 31 dicembre 2012

Di Piero Alberio

Non siamo nulla
Precipitiamo nella tenebra è saremo annientati.
Eppure in questa tenebra, pensa; teniamo il perno segreto di un’idea la cui ruota viva gira negli anni avvenire.
(STEPHEN SPENDER Trial of a Judge)

Quando lessi per la prima volta Las Americas in un certo senso sapevo già a cosa andavo incontro, non era una novità, avevo già letto scrittori del calibro di Dostoevskij,
Celine, Miller, Bukowski... quindi conoscendo Giò e il suo modo di scrivere immaginavo Già cosa andavo a leggere, ed invece non fu proprio così. Dalle prime pagine lette capii subito che mi ritrovavo davanti ad un nuovo modo di concepire la scrittura, un romanzo in prima persona, o, se preferite un’autobiografia in forma di romanzo come lui stesso ama definirlo. Effettivamente il ritmo e la narrazione sono propri del romanzo. Las Americas è la storia di un paio di giovani squattrinati nell’Italia del 90 che attraverso varie peripezie riescono a girovagare per l’intera Europa giungendo fino in Danimarca. Cosa succedeva intanto in Italia nei primi del 90? Ci avviavamo verso un sorta di benessere che l’industrializzazione stava arrecando al paese quindi per molti giovani non era più un sogno vano poter sognare l’America, da quest’altra parte l’America era Roma, in un certo senso, come in primis potei constatare dal mio primo viaggio a Roma nel 94. In quegli anni Roma viveva un periodo di splendore Senza eguali; poeti, artisti, dilettanti, turisti, debosciati e fannulloni da ogni parte del mondo in generale erano tutti concentrati lì come nelle capitali europee, complice anche lo strapotere del dollaro sulla lira. Mi ricordo benissimo dei Punk a Piazza di Spagna, dei metallari e dei dark a Piazza del Popolo, ed insomma ognuno aveva il suo punto di ritrovo nella Capitale. Giò scrive e descrive questo mondo, fatto in parte di artisti, in parte di autentici furfanti. Di geni incompresi, di paranoici. Il romanzo in massima parte è una storia di cimici in case occupate, di sbronze colossali, di postriboli, di impieghi saltuari di prestiti, truffe, autostop, di odore dolciastro nelle stazioni ferroviarie, amori fugaci, di sesso, droga, e chi più ne ha più ne metta; di vita insomma. Tuttavia, dopo un certo periodo di tempo, l’atmosfera del libro inizia a prendere una certa vena melanconica, si incomincia a ragionare sul perché di certe cose. C’è tutto un mondo di cose con le quali vivete dall’infanzia, cose che supponevate fossero per loro natura incomunicabili e qualcuno è riuscito a comunicarle. L’effetto è l’abolizione, anche se momentanea della solitudine in cui vive l’essere umano. In Las Americas quando leggete certi passaggi sentite che la mente sua e la vostra non sono che una sola cosa, v’accorgerete ch’egli sa tutto di voi anche se non vi ha mai sentito nominare, che esiste un mondo aldilà dello spazio e del tempo in cui voi e lui siete uniti. Ma che genere di esperienze, di che specie di essere umani scrive Giò? Scrive dell’uomo della strada e, incidentalmente, è un vero peccato che sia una strada piena di postriboli. Questo è il prezzo che si paga quando si abbandona la propria terra, quando cioè si trasportano le proprie radici in un terreno meno profondo. L’esilio è probabilmente più dannoso per un romanziere che per un pittore o anche un poeta, perché ha l’effetto di fargli perdere i contatti con la vita e restringere il suo raggio d’azione alla strada, al caffè, alla chiesa.
Quindi l’intero libro è su questa vena, più o meno. Come mai così mostruose banalità sono tanto avvincenti? Semplicemente perché tutta l’atmosfera è profondamente familiare, e si ha per tutto il tempo la sensazione che queste cose accadano a noi. E si ha questa sensazione perché qualcuno ha deciso di abbandonare l’antico linguaggio diplomatico del comune romanzo e trasportare all’aria aperta la real-politik. La spietata ruvidezza con cui parlano i personaggi in LAS AMERICAS è rarissima nella prosa narrativa, ma estremamente comune nella vita reale; ho inteso infinite volte simili conversazioni tra gente che non s’accorgeva nemmeno di parlare grossolanamente. Quando appare un libro come LAS AMERICAS è anche troppo naturale che la prima cosa che salti davanti
agli occhi del lettore medio sia la sua oscenità. O si resta scandalizzati e disgustati o decisi fermissimamente a non lasciarsene impressionare. Quest’ultima è forse la reazione più comune, col risultato che spesso libri impubblicabili ottengono meno attenzione di quando meritino. Ormai è un po’ una moda affermare che nulla è più facile dello scrivere un libro osceno, e chi lo scrive lo fa solo per crearsi pubblicità e guadagnare quattrini. La prova che non è questo il caso, è data dal fatto che in LAS AMERICAS il lettore calandosi nella parte vive le stesse identiche sensazioni, non un sesso gioioso romantico ed illusorio come ci viene molto spesso venduto in TV, ma bensì di un sesso spinto da una voragine di vuotezza interiore che permane l’atmosfera
del momento. Sul proposito citò una frase di George Orwel sul fatto: se fosse facile fare quattrini con parole sporche, ci sarebbe molta più gente a dedicarvisi. La visione di Giò è profondamente affine senza dubbio a quella di Whitman, Miller, Celine, Bukowski, e compagnia bella, nella quale dopo varie dissolutezze in giro per l’Europa egli torna al garage, si siede e guarda tutte le storie passate da quel posto dove tutto ebbe inizio, in una sorta di mistica accettazione delle cose così come sono. Per concludere, io caldamente raccomando a chiunque non l’abbia ancora fatto, di leggere LAS AMERICAS, anche se certe sue parti vi scandalizzeranno, vi resterà impresse nella memoria. E anche un libro “importante” in un senso diverso da quello in cui questo termine viene usato generalmente. Di solito vengono definiti importanti quei romanzi (da autogrill) che rappresentano una “terribile condanna” di questo o di quello, o che introducono qualche innovazione tecnica. Nulla di ciò vale per LAS AMERICAS.


martedì 15 maggio 2012

Era dura

Camminavo di notte
appiedato per il paese
avevo capelli lunghi
tanti capelli
selvaggi
e qualche bottiglia sempre in mano
e qualche sigaretta sempre in mano
e qualche rottura sempre dentro
e nella faccia stampato il distacco
e lo sdegno.
Il paese era morto
ma vivo di violenza
succedevano risse e accoltellamenti
mentre io camminavo in un altro mondo
e fra una rissa e un accoltellamento
mentre io camminavo nel mio mondo
e me ne fottevo del resto
si fermava anche una rissa
e dopo tutti gli occhi puntati su me.
Si fermava il tempo
si fermava il mondo
ma non io
anzi, qualcosa dentro si velocizzava
le pulsazioni
e continuavo nel mio passo
ma come se ora avessi un peso addosso
e facevo finta di niente
ma non era niente
c'erano delle sensazioni che volevano accalappiarmi
piano scendevo la mano nella tasca
e mi assicuravo che il coltello fosse ancora lì.
Era li
avevo un'arma
non l'avevo mai usata contro uomini
ma mi sentivo meglio avendocela con me
era un paese aggressivo
e io avevo il mio stile
e volevo difenderlo
a tutti i costi
anche a quello di uccidere.
Perlopiù riuscivo a farla franca
ma capitava di tanto
che qualcuno mi bloccasse
e cercasse di rompermi la testa
ma prima ancora di tirare fuori l'arma
me li giocavo con l'ironia
l'arma più forte.
Camminavo solo di notte
lungo la via del ritorno al garage
la mia casa
e sentivo solo il suono dei miei tacchi sulla strada
e sopra di me un cielo a volte stellato
a volte minaccioso di nuvole
ma andavo
non mi fermavo
mentre mi passava per la mente
che qualcuno mi stesse giocando un brutto tiro.


Stracco

Mi sentivo stracco
avevo passato la notte a bere
e la mattina dopo a lavorare in campagna
a pranzo solo un pò di insalata
ero costipato
avevo nausea
mi riempii un bicchiere di vino
feci un sorso
non m'andava manco di bere
accesi una sigaretta
e mi buttai nel divano
anche la sigaretta mi dava fastidio
ero pieno di troppo vuoto.
Decisi di dormire un pò
ma il sonno aveva altre idee
anzi, non aveva neanche quelle.
Niente
niente
niente
stato vegetativo
per tutto il pomeriggio.
Dovevo anche andare a comprare il vino
ma prendevo tempo
mentre lei mi osservava
lei, mia moglie
e poi mi fa: "Ma non devi comprare il vino?"
"Si, ora ci vado."
Quel "ora" non la convinse
prese il bidone da 5 litri
e andò lei a comprare il vino
nel mio anziano venditore di vino
dove lei non ci era mai entrata
dove c'erano tanti vecchi che giocavano a carte
dove non entrata mai una donna
sostanzialmente come lei.
I vecchi giocavano a scopa
fra un bicchiere e l'altro
e quando lei varcò quella porta
quelli neanche prestarono attenzione
pensavano al solito acquirente
mezzi sonnacchiosi e assorti fra le carte
ma appena lei pronunciò verbo
i vecchi alzarono lo sguardo
e per un attimo rividero la vita
e il più arzillo buttò la carta
e fece e disse: "Scopa!"
"Vorrei cinque litri di vino!"
certo
certo
certo
il vecchio si destò dal suo torpore
si passò una mano fra i capelli
tolse di mano il bidone alla donna
svitò il tappo e gli scivolò dalle dita
fece un sorriso di circostanza
e andò a riempire il bidone di vino.
La signora è servita
la scopa era ancora in stallo
mentre gli occhi dei vecchi
scintillavano di vita
mentre io stavo a casa stracco
vegetale sul divano
e mi sentivo vecchio.


martedì 10 aprile 2012

Interruzione di pagina

E casco dal sonno
Mentre la gente fuori esulta
Rincorre gonne
Si sfascia la testa
Corre sulla strada
Investe soldi
Fa carriera
Io casco dal sonno.
E donne cercano
Maschi per giocare
Un gioco con i fazzoletti
E con i sensi a portata di mano
Senza troppe fuori uscite
Con il sorriso disegnato
E il culo bello sodo
Che faccia palestra
E sappia fare bau bau
O miao
Dipende dai casi
E io che saprei anche volare
Casco dal sonno
Proprio come quell’idiota d’amico
Che avevo un tempo
Che ora è morto di sonno
Però lui aveva sonno
Anche quando c’era una vita
Più interessante.
E pensare che io
A quel tempo
Non dormivo quasi mai
Anzi
Poco
Ma era tutta vita.

Le spie

Sarei dovuto morire dieci anni fa
Quando mi sono reso conto
Della nullità della vita
Allora avrei dovuto spegnere la luce
E dire bye bye a questo mondo
Ma non è stato così
Non ci sono riuscito
Tutto quel che ho saputo fare
È stato rinchiudermi dentro quattro mura
E aspettare
Fra il nulla del niente del vano
Fumando e bevendo
E creando poesia
Testi e musiche
Osservando le crepe della mia miseria
In una solitudine minacciata
Dall’aria stessa.
E oggi sono ancora qua
Fra altre quattro mura
Dopo aver rivissuto altre vite
In un mare di alcol
Minacciato da una noia killer
E da un occhio arcano
Che mi ha sempre spiato
E non mi ha lasciato
Mai morire in pace.

giovedì 5 aprile 2012

Ma prima o poi, all'improvviso, cadrò stramazzato, e poi sarà un saluto per tutti; un bel vaffanculo!

Mio zio fotteva più spesso

Mi ricordo da piccolo
Che ero molto curioso
Di scoprire le cose intorno a me
E spesso mi trovavo lì
A casa di mia nonna
Dove ci stava mio zio e la sua donna.
Vedevo che questi
Andavano spesso nella loro stanza da letto
E da lì si sentivano dei colpi continui
Come di un martellare
Ora lento e poi più veloce.
Ma che cosa fanno lì sopra
Mi chiedevo
Stanno mica aggiustando qualcosa?
Quando loro non erano nella stanza da letto
Andavo furtivo nella stanza
E la controllavo
Ma la trovavo sempre uguale
Senza nessun cambiamento.
Allora c’erano molti tabù
E noi bambini non conoscevamo
Nemmeno la parola fare l’amore
Figurarsi che cosa poteva essere.
Ma io ero curioso
E incoscientemente
Volevo aprirmi la mente
Quindi un bel giorno
Seguii mio zio e la sua donna
Furtivo
Nella loro stanza da letto
E li vidi
Dallo spiraglio della porta
Mentre mio zio saltava sopra la zia
Che si dimenava e gemeva.
Be’
Allora non conoscevo nemmeno la parola gemere
Ma col tempo
Dopo aver spiato mio zio
E poi affrontato la vita
Crescendo
Mi resi conto
Che mio zio fotteva più spesso di me
Quindi mi diedi un bel da fare
Per, almeno
Eguagliare lo zio.
Ma quando io finalmente
Cominciai a fottere davvero
E di continuo
Lo zio era bel e morto
Da un bel po’ di anni
Ma tuttavia pensando
Che lui fosse stato
Uno scopatore senza fine
E bevitore senza fine
Cercai di darmi una calmata
Giusto perché mi era parso
Di aver superato di gran lunga
Le prestazioni dello zio.

La maggior parte della gente ci mette così tanto impegno che riesce a farle davvero bene le stronzate!

Gli dei sono con me, potrei darmi delle arie, camminare con la macchina così senza assicurazione, tranquillamente facendo sorsi nella bottiglia; ma sapete cosa hanno fatto a quel cristo, quindi sto attento!

La fortuna

E poi mi ritrovo qui
A scrivere
Da sempre
Dopo giornate deludenti
Mi sono ritrovato a scrivere
Più o meno ogni sera
Dopo emozioni mancate
Emozioni da poco
Giornate di merda
Belle e brutte storie
Tra ironia e volgarità
Tra depressione e rabbia
Con la bottiglia sempre accanto
Che mi ha tenuto compagnia
In una solitudine vera e propria
Dopo aver fatto pazzie
O semplicemente osservato le cose intorno
E taciuto
O parlato troppo
O rubato qualche emozione
O preso di soppiatto un sorriso
O illudendomi
Fantasticando
Tra lavoro e noia
Tra non lavoro e ozio
Fumando mari di sigarette
ruscelli di sigari
dopo aver scopato
o fatto l’amore
o sesso
o una personale sega
fra giornate senza senso
dopo aver ascoltato questo
e quell’altro idiota
fra la mia sconfitta
il mio buco nero del culo
infiammato
il mio pene insaziabile
il mio stomaco andato a male
il fegato che bestemmia
le mie mani nel vuoto
o fra la carne
vuota
e il mio pugno
contro il cielo.
E scrivo
Da sempre scrivo
E vivo
E alle volte
Ho bisogno d’aria
Ma non la darò mai
Vinta del tutto
A questa realtà coniuge
E scriverò
Scriverò fino a morire
E poi finalmente
Lascerò tutto il resto
In questa merda
Che chiamano realtà.

Teoria e pratica

Delitto e castigo
Be’, delitto e castigo
Amore e morte
Passione e depravazione
Teoria e pratica.
In teoria saprei già tutto
In pratica è un casino
Per dirla così.
Morire sì
Morire si può facilmente
Morire adesso e subito
E lasciare tutto come sta.
E poi?
E poi niente
E poi basta
Smettere di esistere
Fra questa idiomatica e stronza
Vitaccia di merda.
Ah, Dostoevskij
Ormai si è ingarbugliato tutto
Non si capisce più un cazzo
E meno si sa meglio è.
Ormai siamo tutti persi
Nel vano dei vani.
Be’?!
Be’, un corno.
Intanto Tchaikovsky va
La serata è noiosa
E io non mi sento
Né carne né pesce
Come disse Fante
In quel suo libro:
Chiedi alla polvere.
E allora, che dire?
Vaffanculo!
Ecco, l’ho detto
E ora?
E ora ancora niente
Momentaneamente
Avrei bisogno di andare al cesso
A svuotare tutta la merda
Che mi sta intasando lo stomaco.
Che giornata oggi
Ma anche ieri, non è che sia stata…
Però, per certi versi
Meglio di oggi.
Avanti ieri ho finito di leggere
Delitto e castigo
E ora sono due giorni
Che non so più cosa leggere
Vago tra questo
E quell’altro autore
Ma nessuno di loro
Riesce a prendermi.
Morire sì
Morire si può
Facilmente.

Altresì

Eravamo in un bar del centro…
Lui, cliente abituale del locale
Se ne stava seduto
Dall’altra estremità del bancone
Io, cliente momentaneo del locale
Me ne stavo seduto
Dall’altra estremità del bancone.
Sia io sia lui
Avevamo un bicchiere di whisky
Appoggiato sul bancone
Ma ci sentivamo fuori posto
E mentre gli altri
Seduti fra me e lui
Cianciavano morbose noiosità
Io e lui ci stavamo chiedendo
Ma che cazzo ci sto a fare io
In questo posto?
Poi lui si volta verso di me
E mi fa:
“Senti amico
ti andrebbe di fare cambio di posto?”
“Amico”
gli faccio io
“Non è cambiando di posto
che potremmo risolvere la situazione
ma andandocene via da questo bar.”
Di colpo
Tutti gli altri che stavano al bancone
Si azzittirono e mi guardarono
Dall’alto della loro merda
Anche il tizio all’estremità del bancone
Continuava a fissarmi
E anche il banconista mi fissava
E anche quello alla cassa
E anche le mura
Le bottiglie
L’arredamento
Le troppe luci
Tutto mi fissava.
Io
Mentre loro mi fissavano
E stavano in silenzio
Presi il bicchiere in mano
Lo portai alle labbra
Bevvi tutto d’un sorso
E mentre feci per alzarmi
E andarmene
Il banconista mi chiese:
“Scusa
che cos’ha questo bar che non va?”
Guardai la sua faccia
Era opprimente
Ma guardando quella faccia
Trovai la risposta.
“Le luci, si
ci sono troppe luci in questo bar
stancano gli occhi.”
Dopodiché mi accesi una sigaretta
E mi tirai fuori
Dove le luci
Qualcuno
Di tanto le rompe.

Quel che conta

In fin dei conti
Quel che interessa me
È scrivere
Sì, scrivere
Battere sui tasti
E far scorrere la mente
Poi del resto
Di vita
Ce n’è veramente poca
In giro
Ed è già molto
Quando riesco
A prendere qualcosa
Che poi possa anche scrivere
E anche quando non trovo vita
Aldilà della mia
Finché riesco a scrivere
E okay
Ma quando non riesco a scrivere
Sono cavoli
Per così dire
Specialmente se non trovo neanche
Niente di vivo da leggere.

domenica 1 aprile 2012

Anteprima della prefazione di "Las Americas", un mio romanzo di prossima pubblicazione

Prefazione

Chi non si è mai chiesto, almeno per una volta, nei suoi vent’anni, qual è il suo senso nella vita, e soprattutto, che cosa volerne fare dei propri giorni? Volere continuare a sognare fra le pagine di quel libro che vi ha rapiti, immaginando dei perso-naggi che riescono ad essere quello in cui voi ritrovate il vostro alter ego, (o probabilmente il vostro vero io) o invece decidersi, liberarsi da quel senso che ci tiene attaccati ai canoni di una re-altà comune, e andare a vivere di persona tutte quelle avventure e disavventure che la vita tiene in serbo per chi si sbilancia?
La maggior parte della gente, comune e non, non fa altro che fare finta, e si crea un personaggio che il più delle volte non è neanche il suo. Ma lo fa per paura, pura paura di affrontare quel che poi è la consistenza a dimostrare chi si è veramente. Certo, è duro, riuscire a tirarsi fuori da quella armatura che, comunque, in qualche modo sei proprio costretto ad indossare per attutire i colpi, ma la ragione sta proprio qui; è più conveniente subire questi colpi come una vittima o affrontarli perlomeno da essere vivente? No, perché perlopiù, e oggi più che mai, più che esseri viventi stiamo sembrando soltanto dei conviventi comuni, e che oltretutto non si sopportano a vicenda, o perlomeno l’uno vuole prevalere sull’atro. Vogliamo sentirci superiori agli altri. Ma secondo me non è questo il punto. Secondo me, se uno vuole qualcosa dalla propria vita, prima di tutto deve mettersi in discussione con se stesso, e affrontarsi, e anche nel caso che perda, non prendersi mai del tutto sul serio, ma seriamente con-tinuare a rischiare la rivincita. Gli dei ci osservano, o, oltremo-do, la vita.
Nei miei vent’anni avevo una voglia smisurata di andare via dal mio paese, e cercare una qualche forma di vita più interes-sante, (anche se tra l’altro non è che i miei giorni non fossero interessanti; ma io volevo di più) andare a vivere la vita davvero giorno per giorno, con le capacità del mio genio, e soprattutto per vincere quella mia paura che mi rendeva del tutto pigro, e mi faceva accontentare solo del sogno. (Intanto scrivevo poesie) Ma io in qualche modo sapevo che dentro di me qualcosa ci doveva essere, e così un bel giorno, per caso o per volontà, decisi di lasciare tutto e andarmene incontro ad una sorte vaga-bonda. Non ero sicuro di niente; non lo ero mai stato, ma la vo-glia, l’istinto, fu più forte di ogni pensiero. La sera prima che partissi nella mia avventura avevo all’incirca 140mila lire, ma quella sera, incontrando il mio amico Costanzo, decisi di brin-dare alla mia risoluzione. Quando io ho avuto una lira ho brin-dato quasi sempre a qualcosa. Se è stata amarezza ho brindato ad essa, se è stata una cosa simpatica ho fatto lo stesso, e così anche con tutte le altre cose emotive che mi sono capitate. Ad ogni modo, quella sera, poiché Costanzo era senza una lira, e siccome noi eravamo due che tracannavano, e che ci davano dentro di brutto, partirono le 40mila lire. Be’, avevo sempre le 100mila.
Costanzo era un gran bevitore e nello stesso un valente fuma-tore di cannabis. Io alle volte non riuscivo a capire come riu-scisse a mantenere le due sostanze insieme senza dare sintomi di sballottamento perlomeno visibile. Io ero uno che tracannava sì tanto, ma lo sballo lo accusavo, e mi ci perdevo, e addirittura ci godevo, e poi mi sprigionavo in follia, e finalmente mi ritrovavo in quella forma di vita che abitava dentro a quell’essere che sarei dovuto essere io.
Il giorno dopo sistemai lo zaino, presi la chitarra classica che mi aveva regalato un omosessuale a Graz, in Austria, andai a comprare qualche bottiglia, e nella serata fui già sul treno per Roma Termini.
I primi giorni a Roma, con i soldi in tasca, mi parvero una va-canza, ma quando mi finì la grana mi resi conto che dovevo darmi un bel da fare, e da quel momento, incurante del futuro, divenni un vagabondo. Passai mille storie, viaggiai per quasi tutta l’Europa, a volte in compagnia del mio amico Valerio e la sua ragazza, Gaia. Conobbi nuovi personaggi, un bel po’ di ra-gazze. Con qualcuna di loro ebbi delle spudorate avventure ses-suali. Poi rincontrai Petra, una ragazza bulgara che avevo la-sciato in Austria prima di questa mia avventura, il mio amico Costanzo, e poi ancora viaggi, fino a scoprire un amore platoni-co che vissi per tre giorni, fra Isabel, (una francese) e Teide, (canario) a Tenerife, nelle Canarie.
Feci il vagabondo per circa due anni, poi, non proprio per scelta, ma neanche del tutto per la sorte, ritornai al mio paese. (intanto avevo scritto altre ed altre poesie) All’inizio l’idea era quella di comprare un furgone a poco prezzo e poi ripartire, in-sieme a Valerio e Gaia, ma ci riuscì impossibile acquistare il mezzo. Col tempo ci riuscì difficile anche il nostro rapporto, e così si ruppe anche la nostra amicizia.
Molti anni dopo mi venne l’ispirazione di scrivere un romanzo dedicato al mio vagabondaggio, e nel giro di un inverno riuscii a finirlo. Era forte, elastico, ironico, spietato, ma anche ap-passionante, sarcastico. All’inizio gli trovai il titolo: Sognando la California, ma nei giorni prossimi mi venne alla mente che probabilmente quel titolo l’aveva già usato qualcun altro, così lo cambiai in Sognando Los Angeles, ma subito dopo mi sembrò troppo diretto sulla città americana. No, io cercavo qualcosa che andava aldilà, e così, un momento dopo mi venne un altro titolo, Sognavo l’AmeriKa. Sì, perché la mia idea non era tanto quell’America, quella regione, quella terra abitata dagli ameri-cani e dagli indiani sfrattati, ma un’illusione, un sogno, un’utopia, che mi dava la speranza per riuscire a cavalcare la vita e spronare me stesso. Tuttavia poi mi venne un altro titolo, che mi parve ancora più originale e lo definii “Las Americas”.
Questo romanzo è uno dei più avventurosi che abbia scritto fin ora. Parla di questo mio viaggio senza una vera e propria meta, che parte da Roma e finisce a Tenerife, nella Plaja de Las Ame-ricas. In qualche modo in un posto chiamato America ci ero ar-rivato, anche se il nome aveva una consonante in più; la s. Esse come selvaggio, quello che in qualche modo ero io nei mie vent’anni.
Ergo, buona lettura.

sabato 31 marzo 2012

Sono tanti a fare i tipi vissuti, i maledetti, gli sballati, i diversi; quando di diverso hanno solo passare da una stanza all'altra della casa; sostanzialmente dei propri genitori!

Sono andato in un posto, c'era folla, ma non c'era nessuno per me; o magari non c'ero io per loro!

http://www.facebook.com/pages/Svergognati-dissacranti-/118630691565828

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Ridotti male

Più cercheremo di rendere le cose
Più disciplinate
Più sicure
Più le cose diverranno
Più ribelle
Più trasgressive.
Più ci comporteremo bene
Più ce la metteranno nel culo.
Più ci comporteremo male
Più ce la serberanno per quando saremo
Ridotti male.
Comunque vada
I conti sono fatti.

Dal mio romanzo Non era mica Los Angeles

Costanzo ed io eravamo appena usciti dal bar la Catanese do-ve avevamo bevuto un paio di whisky a credito. Avremmo pa-gato prossimamente. Poi andammo in un supermercato dove comprammo una bottiglia di vino. Lì il credito però non ce lo facevano. Poi passammo dalla paninoteca Cardillo, ci facemmo prestare un cavatappi, e aprimmo la bottiglia. Quando fummo nuovamente per strada facemmo un bel sorso di vino mentre ci dirigevamo verso la villa comunale. Eravamo i ragazzi più fe-nomenali del momento, quelli che si permettevano di tutto sen-za rompere i coglioni a nessuno. Anzi, proprio per questo erano gli altri a romperli a noi. Ma con noi non ce la potevano fare, eravamo troppo presi dal nostro modo per farci fregare da loro.
Al parco (o zoo comunale, come noi preferivamo chiamarlo) ci sbracammo sulla nostra solita panca appartata, dietro al chiosco di Castro, e attaccammo la bottiglia, chiacchierando, e ridendo su storie che c’erano capitate. Poi arrivò Franco, uno schizzato consumatore di marijuana, sui venticinque anni, che si portava dietro il collirio e continuava a metterselo negli occhi per far sparire, e non fare vedere, l’arrossamento che l’erba procura. Secondo me era tutt’una perdita di tempo. Lui diceva che lo faceva per l’occhio sociale. L’occhio sociale. Quando diceva questo mi sembrava di avere di fronte un sacco per la spazzatura, vuoto. Ma in fondo Franco era un tipo bizzarro, si faceva grande dietro un mare di cazzate, però aveva fantasia, anche troppa, e tuttavia ti riusciva simpatico.
“Ci date dentro Già dal pomeriggio eh!” disse in un sorriso bislacco.
“Vuoi un sorso?” fece Costanzo.
“Come no.”
Prese la bottiglia, se la portò alle labbra come se dovesse ber-sela tutta, ma per nostra fortuna fece un normale sorso e poi la rimise dov’era, vale a dire a terra. Rimase qualche altro minuto, dicendo questa e quella cazzata, poi si accese una sigaretta e s’inoltrò fra la massa. Io feci un sorso mentre lo osservai sparire fra la gente. La massa. Mi sembravano dei sacchi per la spazzatura pieni.
“Non ti sembra che Franco spari un sacco di cazzate?”
“Si sente un veterano.” Disse Costanzo.
“Ho sentito dire che gli hanno tirato su un bel paio di pacchi.”
“L’ho sentito dire anche io.”
“Però è un tipo simpatico.”
“No, a me Franco piace.”
“Perché non ti ci fai fidanzato.”
“Non gli piacciono i maschi.”
“A me pare che non gli funzioni neanche con le donne.”
“Ah, questo non lo so.”
“Comunque fatti suoi.”
Presi la bottiglia, feci un altro sorso, e poi la passai a Costan-zo. Dopo aver fatto il suo sorso mi disse che ce n’era rimasto solo un poco. Dopo un po’ feci un altro sorso e poi ripassai la bottiglia a Costanzo che la vuotò. Eravamo ragazzi, e credeva-mo nelle affinità, e poi noi due eravamo come il secchio con la corda.
Più tardi ci ritrovammo nuovamente al bar La Catanese. L’alcol non ci bastava mai. Per amor di bere in quel bar, poiché era il più economico del paese, dovemmo vedercela con la peg-giore feccia di ubriaconi, gente sui quaranta che si prendeva davvero sul serio, e non ci stava molto a divenire violenta. Ma noi eravamo folli, e sapevamo prendere anche quella gente, che in fondo aveva più buon senso della gente moralista. Buoni diavoli. E in noi vedevano i loro sogni ormai morti e sepolti, e fra il nostro fare loro si perdevano volontariamente. Ma io e Costanzo, da ragazzi che eravamo, (io diciannovenne e lui quasi diciottenne) continuavamo nel nostro stile. Ogni uno di noi col suo, e stavamo a qualunque gioco ci desse emozione. E poi, tra l’altro, quegli ubriaconi ci trattavano bene, e qualche volta ci offrivano da bere ottimo whisky.
In serata, dopo essere ritornati alla villa comunale, incon-trammo Pippo, detto U Siculu. Un personaggio sui venticinque anni, più convinto che persuaso, che faceva la parte di quello che ne sapeva più degli altri, mentre in realtà era più insicuro dei fichi, e non quelli d’India, ma quelli nostrani. Si fa per dire.
“Ragazzi, voi due siete di quelli che possono farcela, però dovete ancora capire molte cose.”
Capire, capire. Che cosa dovevamo capire? Ma soprattutto, che cosa aveva capito lui? Noi, o almeno io, non volevo capire assolutamente niente. Io volevo solo vivere la mia vita e avere delle emozioni tutte mie, e non mi chiedevo niente aldilà di quello che mi era sempre stato difficile, ma tuttavia, anche in questo caso, non ci stavo poi tanto a pensare. Era una questione mia, che portavo dentro di me. Ma in fondo non ci capivo dav-vero un tubo. Tutto quel che sapevo era che avevo delle diffi-coltà nell’approccio con la realtà a me circostante, e spesso mi sentivo estraneo e minacciato.
Più tardi, mentre facevamo un giro per la villa, brilli, incon-trammo Orazio il pazzo. Un tizio sui quaranta, considerato come pazzo, per l’appunto, mentre era immerso in una delle sue solite esibizioni da spacciatore di vita.
“Siete una massa di morti.” Gridava alla massa “Siete vuoti. Siete noiosi. Ma fate qualcosa di diverso. Cosa avete paura? Svegliatevi. Svegliate questo paese. È nelle vostre mani, lo ca-pite?”
Quella villa era frequentata da un bel po’ di matti. Nel centro riabilitazione J.K., situato a pochi chilometri dal paese, ospita-vano solo quelli cronici, e il trenta per cento di quelli acuti (come li definiscono i dottori) frequentavano il parco. Per inci-so: a mio parere, i matti, sia dentro il parco che fuori, erano al-meno di un novantasei per cento. (in ogni posto e in ogni luogo del mondo) Tuttavia c’era sempre la speranza, il sogno, e l’illusione.
“Brutti stronzi che non siete altro, ma fate l’amore, e non la guerra.” Continuava Orazio. Poi ci vide. Qualche volta ci era-vamo fatti qualche bicchiere insieme. Non era affatto malvagio. “Eccoli, quelli sono due ragazzi vivi.” E ci indicò. “Ma se re-steranno sempre qua diventeranno più morti di voi.”
Alcuni passanti si voltarono verso di noi. Noi sorridemmo.
“Prendete esempio da loro, mentre sono ancora vivi.” Conti-nuò a dire.
“Secondo me sta scoppiando.” Dissi a Costanzo.
“Ma che, quello lo fa apposta.”
“Be’, andiamo va’.”
“Si, andiamo.”
Andammo a sederci in una panca di quello che veniva chia-mato il viale degli sballati. Infatti, quel viale era frequentato perlopiù da gente che faceva uso di droghe in genere e alcol. Giusto il viale per noi, anche se io, preferivo stare nei vicoli, (per modo di dire) ma tuttavia dovevo pure darmi da fare per scoprire la vita. Andammo a sederci fra il gruppo dove, a parte Franco, e Pippo u siculu., c'era Pippo, detto Pomo, lo svedese mancato, ventiquattro anni circa, Alessandro Capuozzo, l’estroso, ventitré anni, e altri che non sto neanche a nominare, anche perché non mi ricordo né i nomi e nemmeno i sopranno-mi, e peraltro perché non hanno avuto niente a che fare con le mie situazioni. Comunissime scimmie per me. Ad ogni modo, aldilà di questi ultimi, era un bel gruppetto di matti. Parlavano di tutto e niente nello stesso tempo. Quello che parlava di più era U Siculu, e peccava di presunzione in un modo spudorato. E tra l’altro si ostinava, e inoltrava spesso argomenti riguardanti gli stregoni Indios. Lui aveva la mania degli stregoni. Secondo me leggeva troppi libri di Castaneda. Anche Franco ogni tanto si fissava con questo Castaneda.
Più tardi Franco ci fece la proposta di andare nella casa in campagna dei suoi. Andammo in sei. Io, Costanzo, U Siculu, Capuozzo, Pomo, e, naturalmente, Franco. Io e Costanzo an-dammo con la mia Fiat Cinquecento, gli altri andarono con la macchina di Franco. Passai prima da casa dei miei dove presi una bottiglia di vino e poi li raggiunsi. Franco stava preparando degli spaghetti col sugo, aiutato da Pomo. Alessandro e U Sicu-lu stavano invece rullando un paio di cannoni. Sul tavolo, a par-te la mia, c’erano altre due bottiglie di vino. Durante la nottata Costanzo ed io eravamo sbronzi a dovere. Poi fu un’avventura rifare tutte le curve nella discesa verso il paese, ma alla fine riu-scii a portare sia me sia Costanzo, sani e salvi. Me n’accorsi la mattina, quando mia madre venne a svegliarmi per andare a la-voro.
“Giovanni, ti vuoi svegliare, sono già le sette e mezzo!”
“Si, si, mi sto alzando.”
“Se rientrassi prima la notte dormiresti di più, e poi la mattina ti sveglieresti più volentieri.”
Ne era sicura? Stava parlando con me? Si, stava parlando con me. Ma ero io? Si, ero proprio io, anche se non avrei voluto crederlo possibile, mi ritrovavo nella medesima realtà.
“Lo vuoi il latte o no?”
Continuavo a svegliarmi in una realtà non mia. Eppure era la sola, unica, e purtroppo ci ero dentro. Prendevo una tazza di lat-te macchiato con molto caffè e piena di pane, e poi andavo a lavorare. In ogni modo il tutto non mi affascinava per niente, e dentro di me c’erano le fiamme, ed io non riuscivo a spegnerle.
Allora facevo sia l’apprendista idraulico sia il bracciante agri-colo nelle campagne di mio nonno, e di entrambi i lavori non me ne piaceva neanche uno. Tuttavia in ogni uno dei lavori trovavo il lato migliore o peggiore dell’altro. Quando facevo l’idraulico potevo svegliarmi più tardi la mattina ma dovevo lavorare fino alle sei di sera. Quando invece facevo il bracciante dovevo svegliarmi più presto la mattina ma tornare a casa nel primo pomeriggio. L’unico lato che mi piaceva in entrambi era la paga. E poi la sera ero di nuovo là, allo zoo comunale, ad aspettare che passasse il primo treno per saltarci su, o ad inventarmelo un treno. Lo odiavo quel parco, ma alternative non se ne vedevano nel paese, e quindi mi ritrovavo più o meno sempre là. L’unica scappatoia che avevo, a parte i bar, era il garage di un fabbricato che mio padre aveva tirato su come futura casa dei suoi figli, dove ogni tanto andavo con Costanzo o altri, a fumare spinelli, bere, e fare casino. Spesso ci trovavo dentro mio fratello Marco con i suoi amici, intenti a pomiciare con le loro ragazze. Ma tornando alla villa, o parco, o zoo; ogni uno ci attribuisca il nome che più gli garba. Tuttavia allora la villa aveva qualcosa di particolare. In mezzo a tutta la massa che la frequentava, c’erano dei tipi che si distinguevano, gente che aveva il suo stile, che si ribellava, chi filosofeggiava, chi blaterava, chi si vestiva totalmente diversamente dagli altri, chi annunciava nuovi modi di pensare, chi proponeva di sbronzarsi, chi parlava di un Dio, Costanzo che parlava d’Anarchia, e io che avevo un modo stravagante e parlavo una lingua non del tutto comprensibile neanche a me stesso. Ero matto? Un po’ come tutti del resto, ma non proprio del tutto. C’era una strada dentro di me, e io, inconsciamente la seguivo. Ma la realtà, cristo, la realtà, quella mia realtà dentro a quello zoo era come andare in una scuola dove i professori – che dovrebbero insegnarti – ne sapevano meno di te che eri lì per imparare. Se ne stavano tutti la, matti, pazzi, ribelli, matta gente comune, a parlare, parlare, parlare, ma non fare niente di strepitoso. Me compreso, che perlopiù non sapevo come esprimermi, anche se infondo volevo dire tante di quelle cose in cui io stesso mi perdevo. Infatti, non riuscivo a pronunciarle, e continuavo a starmene nel mio silen-zio, nella mia nebbia, nella mia incertezza, nel dubbio, mentre nuotavo nel vuoto a stile libero. A volte a rana, a volte facendo il morto aggalla. Finché qualcuno come Orazio il pazzo, o Pippo il rabbino, (un altro matto sui trentacinque anni) non smuovevano le acque, e mi immergevo sott’acqua e nuotavo ad occhi aperti fra i pesci che si allontanavano, i molluschi che sprofondavano sotto la sabbia, e le alghe che mi arrivavano in faccia. Quando poi mi mancava il fiato riemergevo e tiravo dritto verso la deriva, dove andavo a sdraiarmi come un leone, che si abbandona, ma mantiene il suo istinto felino. Comunque. Ogni sera mi ritrovavo nuovamente alla villa, e ogni sera la ri-vedevo per com’era, e se volevo qualcosa la dovevo far succe-dere io. Tranne che non faceva succedere qualcosa Costanzo. Tuttavia, al limite, ci facevamo trasportare da qualcuno, e a-spettavamo che facessero succedere qualcosa loro. Ma perlopiù loro non facevano succedere altro che odio reciproco. Una cosa davvero disgustosa. Io in questi frangenti mi sentivo così costi-pato che spesso arrivavo al punto di sbottare e mandare tutti a quel paese. Quale paese? Be’, non lo so! Mi ci hanno mandato spesso anche a me, ma mai mi hanno indicato la strada, o dato una direzione. Hanno solo detto vai a quel paese. Be’, è inutile continuare il discorso. Comunque a me è sempre piaciuto di più dire vai a fare in culo, almeno qui sappiamo che si tratta del no-stro, ma quel paese è troppo evasivo. Anche se vuole dire la stessa cosa d’andare a farsi fottere. In entrambe i casi non piace, o perlomeno, se quel paese fosse una via di fuga da questo mondo la cosa sarebbe anche fantastica, mentre nel caso di farsi fottere, a qualcuno piace. Ma lasciamo andare questo argomento poco letterario. Anche se io letterario non sono affatto. Io sono soltanto uno che ha sempre cercato di vivere, e per vivere si è ritrovato anche a leggere e scrivere. Ma la vita, una vita davvero… be’, lasciamo perdere. Ma che dire ancora dello zoo comunale? Soltanto che io avevo bisogno di tirarmi fuori prima possibile.

Impreciso

Io sono il diavolo
caduto da non so dove
col culo a terra
sulla sabbia
e ho visto
un qualcosa che non mi appartiene
e ho abbassato lo sguardo
ma non tanto per paura
ma piuttosto
per rendermi un po’ conto
dov'ero
e
eh
e che cazzo
non ero capitato in un bel posto
c'erano dei tipi balneari
c'erano delle mosche che mi ronzavano intorno
e nei dintorni dei marmocchi già rompi coglioni
e tipi che facevano linee per delimitare delle aree
una riva di mare piena di alghe
un sole e una piccola pioggia e un arcobaleno distratto
e un vento che non mi riconosceva
e un pescatore
che mi disse:
“Ehi
ma che cosa fai
qui in spiaggia con la pelliccia?”
Sbattei le palpebre
ma solo un po’
poi lo guardai dritto in faccia
ma evidentemente
il mio sguardo era infuocato
perché quello abbassò lo sguardo
ritirò di fretta la canna
e se ne andò lesto verso un punto a me impreciso.

I miei figli mi vedono come un dio, mia moglie come un re, e io mi vedo a giorni; un po’ sopra e un po’ di lato!

Fasulli piselli fusilli

Ma che ne sapete dell'elettricità
della corrente che passa dentro
a certi corpi in fiamme?
Che ne sapete di un pugno
che potrebbe darsele da se?
Che ne sapete di un pugno
che potrebbe uccidervi solo con un se?
Avete mai visto un pisello con la lingua di un serpente?
non è acido
non è sballo
è una mente elevata
che non vede solo il cappuccino
o il caffè al mattino...
è una mente che vede l'inferno
l'inferno che avete dentro
il paradiso da cui vi nascondete
il purgatorio che deridete
la rima che a me non piace
quelle vostre facce
che a me non piacciono
la poesia che non esiste più
questi poeti che...
ma quale poesia
io scrivo fuoco
la vita non sapete cos'è
la merda vi piace in faccia
scrivete poesia come souvenir
vi lodate di insulti perché siete morti
rompete le palle perché non avete di meglio...
beh, vi conosco
siete fasulli!

Non esiste un gruppo per me; per me esiste solo me, e anche lui, da solo, a volte è già troppo, o poco!

Su un pezzo di Chopin

Sbilanciato
Barcollante fra le strada
La vista offuscata
Ma c’è un fuoco dentro
Che arde
E anche aria
Che mi infiamma
E una lieve pioggia sopra
Per non farmi incendiare del tutto.
Mi soffermo
Guardo la porta
Ma più che altro cerco la chiave
E sostanzialmente non lo so
Vorrei entrare
Ma vorrei anche fare qualche altra cosa
Prendere una decisione di mezzo
Qualcosa di diverso insomma.
Non trovo il buco della serratura
Ci rinunzio per il momento
E mi metto a sedere sul marmo
È freddo
Con le spalle appoggiate al portone
Freddo
Mi guardo intorno e vedo le cose di sempre
Le case, la strada, il cielo, le stelle
Le mie mani malferme.
Al diavolo.
Mi sorreggo e mi tiro su
Che cazzo
Chi è che vuole farmela in barba?
Io sono vivo
Io ci sono
Anzi, sono quello che ne sa di più
Io sono il mago
Mi rigenero
Mi rimetto su in uno schioccare di dita
E così faccio
E a fatica
Aggrappandomi nel nulla
Ondeggiando a mezz’aria
Mi tiro su
Ficco la chiave nel buco
Con non molta facilità
E sono dentro.
Beh
Non lo so
Anche dentro
Mi sento un po’ fuori.

venerdì 17 febbraio 2012

A me più simile

È noioso stare lì al bar
A bere birra
E vedere gli altri
Stare lì al bancone
A bere birra
E sentirli cianciare stronzate comuni
Senza venire a creare
Niente d’interessante
A parte prendere per il culo il tempo
Gli altri
E se stessi.
E me ne vado
Mezzo sbronzo
Ma perlopiù annoiato
In cerca di un posto
A me più simile
Ma perlopiù
Finisco sempre vicino al mio frigo.

Dal mio romanzo Venite signori, venite!

Fumavo. Fumavo un sigaro e bevevo del vino, lì, alle cinque del pomeriggio, al garage, (un garage di un caseggiato di mio padre, dove con l’aiuto dei miei ex compagni anni prima avevo fatto delle stanze, con legname trovata in giro e rubata) nell’attesa. Nell’attesa che qualche evento sconvolgesse i miei giorni. Fuori la corsa della realtà andava avanti senza un attimo di respiro, mentre io ero lì, a bere vino e a fumare, alle cinque e un minuto del pomeriggio, con i miei fantasmi intorno. E riflet-tevo, anche se volevo che non fosse così.
Ero reduce da circa due anni di vagabondaggio fra l’Italia e l’Europa. Avevo rincorso qualcosa, a volte in compagnia di due miei ex amici, Costanzo e Valerio, e quel qualcosa mi aveva condotto fino al limite, e dopo non ho visto altro. Mi ritrovavo con una vitalità bestiale ma non sapevo dove sfruttarla. La vita mi si era risultata una balla, e spesso pensavo al suicidio, ma non riuscivo mai a mettere in pratica l’atto. Anche col suicidio niente da fare. Mi sentivo come uno che avrebbe dovuto trovar-si da qualche altra parte, però non sapevo per nulla dove diavolo si trovava quest’altra parte, e se c’era. E mi persuadevo che non esisteva affatto. Non trovavo un senso. Non mi capacitavo. Tuttavia, ero vivo, e dovevo continuare a vivere i miei giorni. Quei miei fottutissimi giorni di estremo silenzio.
Perlopiù non facevo un cavolo. Lavoravo di tanto, qualche giorno, per ricavare qualche moneta, o nelle campagne di mio nonno, o col lavoro di elettricista con mio fratello Nicola, o come factotum. Anche il lavoro non m’interessava. In realtà non mi interessava più niente. La cosa problematica era che serviva comunque la moneta. In qualche modo dovevo sbarcare il lunario, pagarmi i vizi, mantenermi, ed anche in questo trovavo molta difficoltà. Mi ritrovavo spesso senza una lira in tasca, il che aveva qualcosa d’affascinante, però i minuti, le ore, passavano, e lo stomaco ed il cervello non riuscivano a mante-nersi accontentati della bella sensazione per molto tempo. Poi ci voleva la materia, il liquido.
Tempo prima, per qualche mese, avevo lavorato nell’edicola (allora di mio padre) che vendeva anche strumenti musicali ed altro, e in quel periodo avevo comprato un po’ di libri. Ora que-sti libri, quando mi capitava, li rivendevo a conoscenti ed affini a metà prezzo. In qualche modo dovevo ricavare qualche mone-ta. Ogni tanto andavo persino a Catania, al mercatino delle pul-ci, e compravo delle cose che poi rivendevo, (quando mi capi-tava) a conoscenti ed affini che ogni tanto incontravo. Altre volte, e di rado, quando proprio non riuscivo a conquistarmi una lira, andavo da mia madre, o da mia nonna, e chiedevo loro cinquemila lire. Se trovavo il giorno propizio ricavavo anche diecimila lire. Ma poi ero un nulla facente, ormai considerato pazzo, e continuavo a bere, aspettando che gli dei mi mettessero davanti qualche altra novità. Ma di novità non se ne vedevano proprio. Si vedeva solo una realtà sempre uguale che ogni gior-no riprendeva a girare, e girare, e girare, e a me giravano le palle.
Le uniche cose che mi tenevano aggalla erano i libri, i fumetti di Dylan Dog, ascoltare musica, suonare la chitarra, comporre musiche e canzoni, e scrivere poesie. Scrivevo un mare di poesie al giorno, (e anche la notte) delle quali un sessanta per cento finivano nella spazzatura, e proprio in quel periodo mi ero ci-mentato a scrivere un romanzo, il mio primo romanzo; E venne il tempo vietato alle bestie. Non era un libro porno, anche se trattava anche di erotismo, ma una storia inventata di un tipo che non era mai contento (guarda caso). Ero arrivato alla vente-sima pagina, e lì mi ero bloccato. Del resto, ero depresso, molto depresso, e incazzato. Mi era scivolato tutto dalle mani, e con-tinuavo a bere vino e a cercare di non pensare, alle cinque e dieci del pomeriggio, lì, al garage, sempre al garage, e solo. A parte il mio gatto nero; l’unico che resisteva ancora.
Intanto la radio suonava Paolo Conte. Ah che bella quella canzone, “Avanti bionda”, mi fa venire in mente una bionda che so io. Una che incontravo spesso sulla mia strada. Era una donna sui trenta che mi faceva morire. Ogni quando la vedevo mi ribolliva il sangue. Ma la cosa che mi ribolliva di più era che non trovavo la situazione, o la follia, per riuscire a sconvolgerla. Ero in questo periodo così a terra, così pieno di vicissitudini, che la sola follia che trovavo era quando prendevo a pugni la porta o quando buttavo tutto in aria, o quando suonavo o scri-vevo. Cazzo, spesso me ne stavo ore a fissare le pareti, il soffit-to, riflettendo su cose perdute o altre illusorie. Ci sarebbe voluto un miracolo per rimettermi in piedi così su due piedi. Sì, un vero miracolo, così, come se da un momento all’altro avessi sentito suonare il campanello e, quando fossi andato ad aprire, avessi trovato davanti alla porta lei, la bionda. No, cazzo, le bionde te le devi conquistare. E pensare che l’unica bionda con cui ho avuto un rapporto sessuale (fin ora) è stata la ragazza del mio amico Valerio, la quale ha deciso di tradirlo con me. Pro-babilmente, se quell’altra bionda fosse stata la ragazza di qual-che mio amico, magari, avrei avuto più fortuna. Ma si sa, la for-tuna è degli audaci. Tra l’altro, io non avevo più amici, anzi, non ne ho mai avuti di veri. E poi, anche se la bionda in questione avesse varcato la porta e fosse finita nel mio letto, avrebbe solo attutito qualche colpo, e non tappato il buco dentro di me.
Poi mi alzai e andai al cesso. Dopo aver buttato giù un paio di stronzi presi una rivista porno e mi sparai una sega. Alla faccia delle bionde, degli amici, e degli audaci.
Poi andai in quella che era la cucina, mi riempii un bicchiere d’acqua dal rubinetto, e lo bevvi. Affermavano che l’acqua del-le condotte idriche del paese era ormai non potabile, ma a me non mi ha fatto ancora niente di male, e non mi sono spuntate neanche le branche. Bah, forse un giorno riuscirò a respirare anche sott’acqua; chi lo sa?
Più tardi mi misi a suonare un po’ la chitarra, e dopo aver fini-to di comporre un pezzo, e non sapere che fare, mi tornò alla mente il pensiero del suicidio. Poi pensai a qualche altra cosa, ma nessun pensiero mi conduceva da qualche parte. Vagavo tra cielo e sottosuolo, e la rabbia dentro di me e la disperazione era così tale da incendiare l’aria stessa.
Poi scrissi un paio di poesie su dei fogli A 4, delle quali una era questa.

Dicono
Dicono che sono un anticonformista
Dicono che istigo alla ribellione
Che non mi affianco alla famiglia
Che sono asociale
Prepotente…
Dicono che non intelligente
Dicono che non me ne frega niente
Di niente
Che sono uno psicopatico
Un porco depravato
Che mi arrogo il diritto di dire
Dicono mari e mari di cose
Su di me.
D’altronde
Ogni uno dice la sua
Ma è la sua?
D’altronde
Si dice…
Sono io
Che non presto attenzione
A quello che dicono gli altri.
È vero
Sono anche quello
Che dicono gli altri
Ma sono sempre a modo mio.

Un momento dopo presi in mano i fogli, e dopo aver riletto quello che avevo scritto n’accartocciai due e li buttai sulla mo-quette. Inchiostro su carta, fogli sprecati, alberi abbattuti, niente di più. Sì, magari in uno di quei fogli c’era scritta l’ultima verità, ma a che sarebbe servita quella verità? A chi sarebbe servita? A me? Be’, io mi ero già bruciato, e più in fiamme di così non potevo andare. Avevo trovato anche il limite alle ustioni. Potevo bruciare fino ad un certo punto, poi basta, il fuoco si spegneva da se, mentre io volevo che andassi in cenere. Ma io chi ero? Chi mai potevo pensare di poter essere? Chi sono? Nessuno. E intanto bevevo e fumavo, da sempre, aspettando che il tempo mi consumasse. Che vita gente, che vita!
Poi uscii. Andai a comprare le sigarette. Feci un giro al parco. E dopo non aver trovato niente di nuovo andai a comprare due litri di vino casereccio e me ne tornai al garage. E lì bevvi, bevvi per dimenticare, per ricordare, per non pensare, per inebriarmi, uccidermi, per mantenermi vivo e guardare in faccia la morte e sorriderle. Bevvi per riscaldarmi, per calmarmi, per vincere me stesso, la mia malattia, la tristezza, la noia, l’insonnia. Bevvi così di continuo che senza neanche accorgermene vuotai i due litri di vino. Ma non volevo fare niente di più che stare lì, al garage, perché fuori c’era un mondo che non mi assomigliava per niente, e io avevo visto così tante cose da sentirne ormai la nausea.
Poi associai al vino una pillola di ansiolitico, e qualche ora dopo sprofondai nel sonno; il miglior momento di quella vita. E neanche per quel giorno avevo incontrato la bionda, o qualcun altro, e neanche la madonna. Però almeno ero riuscito a prende-re sonno. E sognai… che diavolo sognai? Be’, sognai che mi stavano decapitando… Poi, così, come succede nei sogni, mi ritrovai in un altro posto, fra le braccia di una donna che aveva qualcosa di veramente umano. Io, invece, aldilà delle interiora, avevo sei braccia, due piselli, e tre palle. Mi sentivo un po’ im-pacciato, ma non era una cosa nuova per me… quindi, sempre come succede nei sogni, avevo le mie sei mani sparse qui e la fra i corpi di dodici donne… Poi mi ritrovai nuovamente sotto l’ascia del boia… poi il boia diventò un boa… io mi stavo ca-gando addosso… e giusto nel momento che stavo al cesso mi ritrovai in un salotto a discutere con due intellettuali, mentre il bisogno di defecare diventò un bisogno di vomitare, poi di uri-nare. Nei sogni non sì ci capisce un cazzo. Tanto che mi feci così prendere dalla discussione con questi intellettuali, che per non bloccare il discorso aprii la finestra, mi tirai fuori l’uccello, e solo quando mi sentii umido mi resi conto che mi stavo pi-sciando nel letto… ma ormai era tardi; l’avevo fatta tutta. Che brutto risveglio, e più che altro è stato nel fior fiore della notte. Dopodiché mi tolsi le mutande, mi portai dall’altra parte del materasso, mi accesi una sigaretta, e quando la fumai cercai nuovamente di dormire. Ma non fu per niente una cosa sempli-ce. Tuttavia, quando sprofondai nuovamente nel sonno, mi ri-trovai di nuovo nello stesso sogno di prima. In pratica sotto l’ascia del boia. Giusto nel momento che mi decapitava. Un momento dopo mi ritrovai con la testa giusto sotto le palle. La afferrai con le mani e me la riportai al suo posto, ma appena mollai la presa mi andò nuovamente giù come una parte che non fosse più comandata dal mio corpo, e un momento dopo venne giù anche il corpo, e finalmente mi addormentai sul serio.

Lardichella Road Poetry

È forse solo una visione scettica della realtà, oppure l'ultima chance che abbiamo per essere noi stessi. Sicuramente è un libro creato per chi ama l'odore della città, le amicizie di un giorno o di un'eternità, il senso della vita e della morte. Se potessimo scavare in fondo alla nostra anima... le passioni inonderebbero la pagina.

giovedì 16 febbraio 2012

Chi sei?

Piove
Qui fuori dal bar
E la strada luccica
Col riflesso dei lampioni
Piove sulle macchine
Sulle case
Sulle teste di chi si lascia piovere addosso
Mentre io fumo una sigaretta
Qui davanti al bar
Sotto un balcone
Perché dentro è vietato.
Piove una pioggia leggera
Ma costante
Piove e c’è chi si lamenta del tempo
Mentre dentro al bar si prendono pel culo
E qualcuno comincia ad incazzarsi
E la banconista vorrebbe tornare a casa
E i proprietari vorrebbero più gente dentro al bar
Che in altri posti
Ma gente che non combini casini e consumi
Gente che spenda e non si espandi troppo
E non quei quattro stronzi
Che non hanno niente di meglio da fare.
E piove
E io fumo
Col bicchiere nell’altra mano
E sorseggio il mio drink
Qui fuori
Neanche io ho di meglio da fare
E fumo e bevo
O bevo e fumo
E ogni tanto mi vieni alla mente tu
Tu che non so
Manco chi cazzo sei.
E torno dentro
Ordino un altro drink
E sto nel mio silenzio
“schivo e possente” mi han detto
Mentre i 4 stronzi mi scrutano
Vorrebbero sapere chi sono
E
Beh
Non l’ho mai saputo neanche io
Veramente.

L’umana gente mi fa un po’ senso!

Avere l'aria

Ogni tanto mi ricordo
Di qualcosa che non c’è più
Ogni tanto mi soffermo
E guardo laggiù fra i ricordi
E vedo sguardi
Facce
Movimenti
Momenti
Circostanze
Conseguenze
Attimi
Attrici
Voglia di ridere
Far finta di non piangere
Bottiglie che si vuotano
Bottiglie che volano
Bottiglie vuote
Impolverate
Lasciate lì perché c’è tempo
Attimi senza premura
Un tempo che sembra infinito
Duri che fanno i buffoni
Disperati che fanno i duri
Occhi vivi
Foto immortali
Musica alternativa
Amori appassionati
Passioni sfrenate
Giochi randagi
Momenti di gloria
Momenti di gioia
Momenti di rabbia
Di tristezza
Notti d'insonnia
Giochi profani
Cieli lontani
Giorni pieni
Giorni insieme
A far baldoria
A parlar semplicemente
Semplicemente a stare in silenzio
Tatuaggi indelebili
Donne splendide
Donne matte
Donne irraggiungibili
Donne spudorate
Donne compagne come uomini
Amici che fumano
Tende che svolazzano
Colori sul fuoco
Labbra sensuali
Carnose
Riflessioni costruttive
Strumenti musicali
Torte in faccia
Sguardi ironici
Sentimenti troppo grandi
Voglia di andare in posti migliori
Una vecchia macchina da scrivere
Un orologio fermo a quell’ora
Quel momento che non ci sarà mai più
Ombrelli sotto la pioggia
Attimi di serietà
Attimi di esuberanza
Carichi di erotismo
Poesie infinite
Viaggi lontano
Frequenze magiche
La vita e la morte ai fianchi
Lo sconvolgimento dentro
Matrimoni nostalgici
Angoscia smisurata
Corpi inebriati e drogati
Città europee
Treni in corsa
Scompartimenti dormienti
Bambini raggianti
Lacrime agli occhi
Grida all'ignoto
Avere l'aria di...
Essenza
Potenza
Vitae.

Viva la voluttà

Sono in tanti ormai a pensare
Che sono un tipo assai indecente
Se non folle
E il fatto sussiste
Perché in verità
Ho tutte le attenuanti.
È più forte di me
Se non faccio dell’indecenza
Mi annoio
E se non trovo un po’ di passione
Mi deprimo
E se mi deprimo
Mi sento inutile.
Fatti i conti
Per evitare la depressione totale
Mi conviene
Fare della follia o dell’indecenza
Soprattutto
Perché quando faccio l’indecente
Mi diverto pure.
Quindi
Viva la voluttà.