mercoledì 30 novembre 2011

La poesia che vogliono

Ti amo più della mia vita
ti amo come un fiume in piena
vivo di te come tu vivi di me
respiro il tuo respiro
e gli uccelli cantano
mentre ci stringiamo la mano
nel panorama di quest'alba
tutta per noi...
questo lessi su un muro
scritto con vernice a spray
e beh, tirai fuori il pacco delle sigarette
me ne accesi una
mi alzai il colletto del giubbotto
e continuai a camminare.
Più in la dei tizi facevano a pugni
altri cianciavano vaccate
delle macchine sfrecciarono come razzi
sfidando l'incrocio e la sorte anche altrui
mi fermai un attimo
sputai e proseguii
un tizio mi passò accanto e mi diede uno sguardo
uno sguardo di sfida
ma più che altro ce l'aveva con se stesso.
Arrivai nel bar tabacchi notturno che cercavo
comprai le sigarette e una birra
e presi una strada più lunga
lunga la via del ritorno
per non fare quella di prima
e in un muro ci trovai scritto
con vernice a spray
w il vino.
feci un altro sorso di birra
mi accesi una nuova sigaretta
e continuai a camminare.

martedì 22 novembre 2011

E mi hai detto

Nella noia
I luoghi comuni
La merda in genere
Il sonno perduto
I giorni sprecati
I giochi incompresi
Ti ci metti pure tu.
Papà
Padre
Pa’
O ‘apà
Come si diceva qui da noi
Ai tuoi tempi
O forse ai tempi di tuo padre:
Perché non cerchi di continuare
A spalare la tua merda
Invece di continuare
A trovare dei vermi fra la mia?
E mi hai detto che bevo troppo
E mi hai detto che sono pazzo
E mi hai detto che non capisco
E mi hai detto pure che sono intelligente
E mi hai detto che mi esterno dal mondo
E mi hai detto che devo capire
E mi hai detto che sognavo
E mi hai detto che così mi uccido
- mentre non sai
che io così sopravvivo –
E mi hai detto…
Però non mi hai mai detto
Cosa ha ucciso te.
Papà
Se non hai niente da dire
Cerca di stare zitto
Ti capirò di più
E non mi verrà questa voglia
Di non sentirti più mio padre.
Rilassati
Io lo faccio
Anche ora che ho dei figli
E so che domani
Domani
Domani
Domani
Domani potrei anche crepare.
Loro invece resteranno in vita
E magari saranno più bravi di me
E ce la faranno
E godranno
Anche di quello
Che tu ti sei sempre perso;
Per lavoro
Per morale
Per le tasse
Per i tuoi ideali.
Comunque sia
Sempre perso è
E non lo riavrai
Neanche pagando tutte le bollette
Dell’acqua
Della luce
Del gas
Dell’INPS
Del 741
Per due
Diviso virgola
Moltiplicato per Pitagora
Arriverai a comprendere
Che ti hanno già mandato al diavolo
Come manderanno anche me
Forse
O forse chi lo sa
Pa, pa, pa, pa?!

lunedì 21 novembre 2011

Almeno una

Non ti posso guardare
Mentre te ne stai lì
Impalata davanti allo schermo
Della tv
Come ipnotizzata
Da quegli insulsi
Programmi di merda.
Mi sembri una comunissima
Idiota senza vita
Ed è più forte di me
Te lo giuro
È più forte di me
La voglia di dirtelo
Francamente.
E tu dici
Che non sai cosa fare
Ma chi è che lo sa?
E ti ho consigliato di scrivere
Di dipingere
Di fare sculture
Ricami
Di darti alla botanica
Alla lettura
A qualcosa di costruttivo
Insomma
Ma ad ogni cosa
Mi hai risposto con un
Mi annoio.
E chi è che non si annoia
Se non trova qualcosa da fare
Che in qualche modo
Lo appassioni?
Basta pensare un attimo a me
Ed eccoti chiaro
Il quadro delle cose.
Ora capisci perché
Me ne sto ore ed ore
A scrivere
O leggere
O bere
O trafficare con le piante
O semplicemente
In silenzio?
Cerca una qualche passione
Dentro di te:
ce ne sarà almeno una!
O no?

domenica 20 novembre 2011

Sono uno scrittore profano

Sono uno scrittore
Uno scrittore
E vedo le cose
E le conosco
Ma non le capisco
Non trovo il rapporto fra me e loro
Come un alieno in un altro mondo
Come un mondo in un altro universo
Come un universo in un’altra galassia
Come una galassia in un altro spazio
Come uno spazio visto con altri occhi.
Sono uno scrittore folle
Uno che ascolta Chopin e gode
Uno scrittore pazzo
Ma non molto
Uno scrittore un po’ triste
Ma bastardo all’occasione.
Uno scrittore ribelle
Un idraulico volenterosamente pigro
Un factotum volenterosamente un poco volenteroso
Un campagnolo solamente per forza di cose
Una cosa che rompe proprio i coglioni
Una pioggia che non finisce mai
Un sole che di tanto piace
Un sole che non ho più rivisto
Un sole che sta lassù
Dove lo hanno messo.
Quella baldracca non franca
Con l’epatite C
Che me l’ha detto dopo
Dopo avermelo fatto
Ma non è riuscita a farmela prendere anche a me
Perché o ero troppo carico di vinaccia
O perché i miei anticorpi erano nella giornata battagliera
E in culo se l’è tenuta solo lei.
Sono uno scrittore libertario
Uno svagato fra genio e ironia
Uno psicopatico con chiodi fissi sul pisello
Con le emorroidi nel culo e il fegato e il resto a percentuale
Con la mente aperta fra la nebbia della massa
Col pisello fuori dalla cerniera mentre piscio su un muro
Col pisello in ritirata mentre sento un freddo cane
Col pisello che non c’è quando intorno a me c’è niente.
Ma che cazzo però
Tutta questa vita che sembra in giro
E a me da loro non viene neanche uno straccio d’ispirazione
Per scrivere un nuovo romanzo.
Io per trovarla ho bisogno della mia genialità
Del mio modo di pormi fra la vita
Del mio passato, del mio presente
E di quel tuo passaggio in determinati momenti.
Poi, del resto, sono uno scrittore
Uno scrittore profano.

lunedì 14 novembre 2011

Dal mio romanzo Se non avete niente da bere siete pregati di non suonare

Si chiamavano Gli Schizofrenia. Ora stavano passando un periodo di estrema spiritualità e transizione, e al momento erano considerati molto fuori di testa dagli altri. Invece io li trovavo interessanti, anche se non capivo mai dove volessero arrivare. Il mio amico Michele La Rosa invece aveva passato un periodo di follie fra la massa e la febbre del sabato sera. Ora si ritrovava nuovamente deluso, svuotato, depresso, e quindi era ritornato dal vecchio Giò. Gira e rigira Michele tornava sempre dal sottoscritto.
Quella sera avevamo avuto un bel po’ da bere. Angelo era arrivato al garage con una bottiglia di vino. Io ero già dentro con sei birre (meno una che avevo già finito). Poi arrivò Giorgio il gatto con qualche altra birra. Poi arrivò Nicola e Piero con due birre ciascuno. Più tardi arrivò Michele con un’altra bottiglia di vino, e con lui arrivarono Carmelo e Nicola D. con un’altra bottiglia di vino, da due litri. Così, dopo aver finito di suonare restammo ancora dentro la sala prove a bere e sparare cazzate e anche cose interessanti. I primi che se ne andarono furono i due fratelli, Piero e Nicola. Più tardi se ne andò anche Angelo, e poi fu la volta di Giorgio il gatto. Io e gli altri tre restammo ancora lì a finire l’ultimo mezzo litro di vino. Dopodiché ci demmo appuntamento alla Capannina, il mio bar affittato. Eravamo tutti e quattro molto brilli, ma c’eravamo e ce la sentivamo.
Michele ed io fummo i primi ad arrivare al bar. Mia moglie era seduta ad un tavolo con una ragazza e un ragazzo. Negli altri tavoli c’era altra gente. Perlopiù personaggi di mia conoscenza.
“Ah, ecco, quello è mio marito!” annunciò ai due mentre con Michele varcavamo la porta.
“Chi dei due?” domandò la ragazza.
“Lui!” disse Ivana indicandomi.
“Ah!” fece la ragazza e voltò lo sguardo verso Michele. Magari si sarebbe immaginato lui come marito di mia moglie, e non me, o magari che ne so… Tuttavia, dimostrò subito più interesse per Michele che per me, così a primo impatto.
“Vieni Giorgio, che ti presento una mia amica!” fece mia moglie.
“Prendo una birra e arrivo!” dissi continuando a camminare verso il bancone.
Ordinai una birra ad Alessandro. Anche Michele ordinò una birra. Dopo che Alessandro ci diede le birre feci un sorso e poi andai al tavolo di mia moglie. Michele restò al bancone.
“Salve!” feci.
“Questa è Barbara Ciletta, una mia compagna di quando andavo a scuola a Paternò!” fece Ivana indicandomi la ragazza. Barbara era una ragazza magra, capelli ondulati, un naso un po’ sporgente, ma sensuale, che vestiva tipo alla hippy.
Barbara si mise in piedi e mi porse la mano. Io le diedi la mia e le dissi: “Giò, per gli amici!”
“Questo è il suo ragazzo, Enzo!” disse mia moglie indicando il ragazzo.
Era un tipo con capelli lunghi a metà collo, scuro di carnagione, aveva diciotto anni, e anche lui era un musicista. Suonava la chitarra. Be’, non me ne fregava un cazzo, tranne che non si sarebbe mostrato interessante.
Intanto erano arrivati Nicola D. e Carmelo.
“Scusatemi.” Fece mia Moglie “Il dovere mi chiama!” e fece per dirigersi verso il bancone.
“Stai pure Ivana.” Le gridò Alessandro “Faccio io!”
Mia moglie si rimise al suo posto.
“Be’…” dissi ai due fidanzati “Vado un attimo al bancone… Sono con un paio di amici.”
Tornai al bancone. Anche Carmelo e Nicola avevano preso due birre.
“Ragazzi, andiamo a sederci al tavolo che vi presento agli amici di mia moglie!”
Andammo al tavolo, prendemmo due sedie da un altro tavolo vuoto, ci mettemmo a sedere, e poi feci le presentazioni dei miei amici. I folli.
Scambiammo quattro chiacchiere non molto interessanti. Poi Barbara ed Enzo dissero che dovevano andare, e un momento dopo ci salutarono.
“Be’, ci sentiamo Ivana!” disse Barbara a mia moglie. Ciao ciao, ciao ciao, e poi andarono a pagare alla cassa e se ne andarono, dandoci l’ultimo saluto. Ciao ciao, ciao ciao! Alzai solo la testa. In fin dei conti, così a primo impatto, non mi erano sembrati niente di interessante questi due… O perlomeno, Barbara si era dimostrata molto disponibile e scaltra, ma il suo ragazzo mi era sembrato un tipo che ha ancora diciotto anni e non sa ancora un fico della vita. La vita! La vita?! La vita? E delle cose che deve pagare uno che vuole mantenersi vivo, e delle morti che deve scampare. Io a diciotto anni mi sentivo il più forte di tutti. Poi ho imparato a relazionarmi con gli eventi, anche se comunque ho cercato sempre di darmi forza, nel male, nel godimento, e nella miseria. Là fuori ci sono stati sempre gli umani, la peggiore feccia, e io ho sempre fatto parte di loro. Anche dopo la fantasia dell’adolescenza loro sono sempre stati onnipresente, e ho dovuto digrignare i denti per fare valere la mia esistenza. È stata dura, davvero. Continua ad essere dura, davvero. Ma c’è una luce che può essere la morte o la vita eterna, e anche momentanea.
Più tardi, poiché eravamo rimasti tutti con qualche spicciolo, se non del tutto senza una lira, e avendo ancora voglia di bere in compagnia, anche se eravamo più che brilli, mi feci fare del credito da Alessandro, e presi una bottiglia di vino Porto.
Carmelo e Nicola erano quelli più sbronzi. Da lì a poco cominciarono a fare dei discorsi troppo intellettuali per i miei gusti, e ridevano troppo in continuazione. Michele invece si era azzittito del tutto. Si limitava ad annuire, sforzandosi di tanto a mostrare una specie di sorriso. Io invece mi stavo rompendo il cazzo, e cominciai a sentirmi sempre più costipato e annoiato. Quando la bottiglia di Porto finì, Michele decise di prenderne un’altra lui a credito. E così fece. Dopo quest’altra bottiglia fummo davvero tutti e quattro ubriachi. Carmelo e Nicola volarono via del tutto fra le psicosi delle loro menti. Michele aveva preso a fare dei suoi ragionamenti completamente folli, fra noi e qualche altro avventore che stava dentro al bar. Io avevo assunto l’espressione di uno che avrebbe potuto essere lì lì per andare a squarciare qualcuno. Appena ci mettemmo in piedi eravamo tutti e quattro barcollanti. Gli altri ci osservavano, alcuni disgustati, altri sorridenti. Carmelo e Nicola se ne andarono per Primi. Io ormai dovevo resistere fino alla chiusura, per portare via mia moglie con me. Michele restò lì decidendo di farmi compagnia.
“Che fa, ve la bevete un’altra birra?” disse Alessandro ad un certo punto, mentre Michele ed io ce ne stavamo appoggiati al bancone in silenzio.
“Quelli si bevono anche te!” gli fece mia moglie prima che qualcuno di noi due rispondesse.
Michele ed io, di conseguenza, facemmo una risata beffarda.
“Be’, un bel brandy ci starebbe meglio!” feci.
“Già!” aggiunse Michele “Un bel Brandy.”
Sandro disse a Ivana di farci due Brandy. Mia moglie ce li fece belli abbondanti. Poi Sandro disse a mia moglie di iniziare a pulire il bar. Noi facemmo un buon sorso di brandy. Anche Sandro si diede alle pulizie. Era orario di chiusura. Facemmo un altro sorso di brandy. Poi accendemmo due sigarette e facemmo un altro sorso, l’ultimo. Poi Sandro ce ne versò un altro po’ nei bicchieri. Con Michele ci guardammo in faccia, facemmo un sorriso beffardo, e poi vuotammo i bicchieri in un sorso.
Dopodiché chiusero il bar. Gli altri avventori se n’erano tutti andati. Sandro ci chiese se non avevamo mica bisogno di un passaggio. Un no glielo dissi io, un altro Michele La Rosa, e l’ultimo mia moglie. Poi Lui se ne andò con la sua macchina, Michele con la sua, ed io e mia moglie con la mia.
Arrivammo vicino casa. Poiché ero molto sbronzo parcheggiai la macchina dall’altra parte dei binari della Circum Etnea che dividono la strada grande dalla casa dove sto ancora oggi. Ci sono anche altre strade che portano a casa mia, ma sono molto strette e piene di macchine parcheggiate. Quella sera, come altre, decisi di parcheggiare di là, per non affrontare le strade strette. Quindi, ora ci toccava superare il primo muro che separa una strada dal passaggio delle littorine, e saltare il secondo che da proprio di fronte a casa mia.
Mia moglie non è mai stata brava, né a salirli, i muri, né a saltarli. Io, poiché ho abitato nel posto già da piccolo, ero più pratico. Da ragazzo mi facevo certe arrampicate volanti e saltate… Quella sera, con mia moglie che si lamentava del fatto di arrampicarsi e poi saltare il secondo muro, e io sbronzo, feci lo spaccone, e per dimostrarle che era un gioco da ragazzi mi lanciai in un precipitoso salto. Ma fu avventato. Inciampai il piede sul bordo del muro e arrivai dall’altra parte, sull’asfalto, direttamente con la faccia. Ovviamente mia moglie si ammazzò dalle risate. Mentre io imprecavo contro di lei, i muri, l’asfalto, e me stesso.

domenica 13 novembre 2011

Sostanzialmente

Mi slancio
Tiro fuori il mio ego
Rido e mi applaudo
Ti osservo
Proponendoti magari
Gli occhi nelle tue labbra
Navigante il cuore
Fra le psicosi della mente.
Il sangue aritmicamente
Fluisce nei piedi.
Vorrei una musica
Sostanziale
Ritmicamente viva
Molto o più aerea
Qualcosa sull’attimo.
E tu mi osservi furtiva
Credi o pensi forse
Poi rinunzi
Io passo avanti.
Vorrei una musica…
…metti Conte dai!

venerdì 11 novembre 2011

Io che mi viene di svegliarti

Io che sono malato
Io che sono viziato
Io che sono ribelle
Io mi son rotto le balle.

Io un fortunato
Io un condannato
Io che sono saggio
Io che sono bastardo.

Io che sono un po’ perso
Io che sono perverso
Io che sono raggiante
Io che sono un bugiardo.

Io che sono sboccato
Io che sono depravato
Io che sono svagato
Io che sembro un po’ anche idiota.

Io che cambio stagione
Io che vivo nell’illusione
Io che non me ne frega niente
Io che so il fatto mio.

Io che scrivo per vivere
Io che bevo per non arrendermi
Io che non fumo più neanche spinelli
Io che tengo i denti stretti.

Io che faccio follie
Io che sono anche serio
Io duemila parole
Io manco una decasillaba.

Io pigrone
Io sempre in movimento
Io speranzoso
Io pessimista.

Io un guerrigliero
Io un codardo
Io un beffardo
Io un poco di buono.

Io senza occhiali
Io con gli occhiali
Io col cappello
Io senza cappello.

Io che fumo duemila sigarette
Io che fumo un sigaro
Io che sbuffo davanti alla gente
Io che impreco contro il niente.

Io che sono anche divertente
Io che sono anche depresso
Io che suono la chitarra
Io che mi faccio una sega.

Io che mi piace scopare
Io che mi piace anche l’amore
Io che bramo la passione
Io che sono un gran coglione.

Io che ti guardo negli occhi
Io che non ti posso guardare
Io che mi viene di svegliarti
Io che…
Ma vaffanculo tu e gli altri.

Mi sono rotto le balle di dare spiegazioni; nella vita non si spiega, e chi capisce capisce, chi non capisce può benissimo andarsene a fare in culo! Grazie.

Quel filo d'erba

Io sono quel filo d'erba

Quel filo che vi va sempre all'occhio
Quel filo che vi da fastidio
Quel filo che chissà come mai
Anche se vi risulta avere tagliato
Sbuca sempre fuori.
Sono quel filo d'erba
Quel filo che vi sconvolge la quiete
Un filo che vi guarda con ironia
Ma immagina di raparvi il cervello.
Sono quel filo d'erba
Erbaccia
Mal'erba
Gramigna.
Erba selvaggia
Erba inconsueta
Erba che vive
Erba che è viva.
Puoi calpestarmi
Pisciarmi addosso
Spruzzarmi veleni
Io ritorno su e te lo faccio apposta.
Quel filo d'erba sono io.

giovedì 10 novembre 2011

Carte siciliane

Storia di tre compari
che nella vita si ritrovarono
fra la via dell’amore…
Come tutti, del resto
anche loro nei loro errori
camminavano su un sottile filo di spago
ma il tutto sembrava una favola
una dolce sinfonia di suoni
che diceva, cantava, giocava
faceva sognare la classica coppa
dell’omonima donna
che li ubriacava
li ingannava
e pian piano li tradiva
li tradì.
Fortunatamente
qualcosa nell’aria
li avviava
gli cantava la realtà di come stessero
veramente le cose
che non rispecchiava per nulla
i loro sogni.
Uno dei tre compari
il più imbroglione e doppiogiochista
che si possa incontrare
andò a cercare la sua donna
in quella Germania così meccanica…
costei, donna gentile
donna amabile, piena di misteri
così brava nel ruolo d’angioletto
così grande e sola eroina
delle notti d’amore
gesta dolci, caldi
mani sempre innanzi a lui
coppa sempre piena
per soddisfare le sue seti…
la così infatti chiamerei
donna di coppe
donna tentatrice
così brava nel saperti ubriacare
nel saperti prendere
e farsi desiderare donna.
L’altro compare
un tipo calmo, tranquillo, placido
ma così tanto capace d’essere
turbolento, inquieto
e cornificato dalla Dea delle astuzie
sempre nelle occasioni giuste…
lui la sua donna la cercò in quell’Italia
in quella città così bella
così essenziale
infatti sto parlando della nostra capitale
e lei una star
bella, luminosa, donna d’illusioni
e desiderata da tutti
e come infatti
egli, per le strade letali
sempre le spalle si dovette guardare
spalle vitali che la donna di spade
gli voleva squarciare.
Quell’altro compare
un tipo che vi saprà definire
solamente Dio
perché così vario e di svariati colori
ad ogni caso e situazione
che nessuno ha avuto modo di poter dire
o poter dare una definizione a quello che lui è
però possiamo dire che lui
in questa Sicilia
trovò la donna di bastoni
donna dai seni sempre duri
dalle mani vuote
mani che in lui si cullavano
e pretendevano…
mani che troppe volte tiravano fuori mazzate
mani che andavano a fare male
in tutti i suoi minimi
da lei chiamati errori
sbagli vitali
perché di perfezione ella era pervasa.
Il suo agire come infatti
la sua arma rispecchiava
pedante ma presso ché ingenua.
Poi, questi compari
si ritrovarono insieme
a parlare di donne di coppe, mazze, e spade
però mancava qualcosa
una carta
quale la donna di denari
che nessuno di loro non aveva mai incontrato
e così fu che gli venne da pensare
- dopo ormai quasi convinti che
nessuna donna gli poteva giovare -
che per continuare la partita
quest’altra carta bisognava giocare
e così, briscola
e scopa
e tivitti.
Fine della fiaba.


mercoledì 9 novembre 2011

Grigio come la nebbia

Stavo cercando di non andare a sbattere contro qualche panchina o qualche altra cosa che si trovava in quella via della villa comunale, mentre la percorrevo a passi lenti. Accanto a me ci doveva essere Alessio. Almeno, prima c’era. Ora non lo vedevo più. La nebbia era così fitta che riuscivi a vedere solo te stesso ma con da sopra le caviglie in poi. Sembrava quasi stessi camminando in mezzo ad una nuvola, però sotto i miei piedi c’era l’asfalto, anche mal ridotto, e potevi benissimo inciampare in qualche dosso o roba del genere.
Alessio (l’impasticcato) forse era stato rapito dalla nebbia. Mi fece ricordare un film che avevo visto da piccolo… non mi ricordo bene la trama o gli attori o nient’altro che questo luogo che, mi pare, appariva in una notte attraverso la nebbia, solo per una notte, poi quando stava per arrivare il giorno la nebbia se lo portava via chissà dove, e poi appariva un'altra notte di un altro giorno. Non ricordo neanche se era così la storia ma comunque mi ero fatto questo pensiero di questo film senza alcun senso, ma forse il film aveva un senso, che né so… fatto sta che mi era rimasto nella mente e in quel momento venne fuori, così offuscato come la nebbia che mi stava circondando.
Di Alessio non sentivo nemmeno la presenza, non capivo dove cazzo era svanito. Poi mi sentii chiamare, era la sua voce. “Giovanni, Giovanni…” Veniva dalla direzione davanti a me, non più in la di trenta metri. “Sono qui nella fontana.” Si, nella fontana, ma dov’era la fontana? Era nella direzione di fronte a te, cretino, dovevi solo proseguire sempre dritto, e arrivavi lì.
Questa nebbia ci aveva rotto il cazzo. Era venuta così all’improvviso, e mi colse di sorpresa. In un certo senso le sorprese mi danno fastidio, anzi, forse neanche mi piacciono. Quel bastardo di Alessio si orientava meglio di me. Tutte quelle Playgine gli avevano alterato i sensi. Ora la nebbia si era un po’ dilatata e riuscii a vedere Alessio mentre planava, si, proprio come un uccello o un aereo, planava fra la nebbia ma con i piedi a terra. Rideva felice e planava, e io che quasi sbattevo le parti basse contro una panchina, brillo com’ero. Era un periodo grigio per me, (per Alessio non sembrava, anche perché a lui non interessava quello che interessava me) la malinconia mi stava sempre addosso, non c’era alcol che me la facesse vincere, e non vedevo una fica da un “casinooooooooo” di tempo. Si, qualche fica l’avevo vista, una, ma non volle fare avvicinare il mio amico pisello: che stronza! Mi fece arrivare fino a vederle la fica, e appena cominciai a tastarla con le dita lei si tirò su le mutande, si riabbassò la gonna, e mi disse che non voleva farlo. Ma che cosa non voleva fare? Non c’era mica da commettere un reato. Che io sappia è la soluzione di questa vita, almeno voglio credere così, anche se io trovo un’altra soluzione: bere e non pensare di farmi certi tipi di pensieri come chi sono, da dove vengo, o dove sto andando. Io so soltanto che sono qua, e che ero là in mezzo a quella nebbia, e in compagnia di Alessio che riusciva a vederci mentre io a stento vedevo lui.
Era un periodo grigio, grigio come la nebbia, anche se non so bene se la nebbia è grigia, ma si fa per dire. Avrei voluto trovarmi fra le braccia di qualsiasi tipo di donna, ma che, niente, solo Alessio, nebbia, droga, spinelli, e alcol. Una sera fumai così tanto che non mi riuscì più di sentire il whisky; tanto che bevvi mezza bottiglia di whisky in un sorso, ma niente, non c’era nodo di potermi ubriacare, ero così lucido che avrei voluto suicidarmi.
Niente, era un periodo grigio e Alessio continuava a volteggiare fra la nebbia, diceva che la nebbia era bella. Anche io l’avevo detto, ma in quel momento non era affatto bella, anzi, era una seccatura. Poi finalmente la nebbia se n’andò e Alessio la smise di planare e ritornò a camminare accanto a me. Poi ci dirigemmo alla macchina. La nebbia ormai si era allontanata e io mi diressi al bar. Mi fermai e presi un whisky che bevvi d’un sorso, e una birra che portai con me. Poi accompagnai Alessio a casa e me ne andai a casa mia, anzi, a casa dei miei. Erano le due del pomeriggio ed io ero già bronzo. Mia madre mi osservava, di tanto, con una faccia schifata e sdegnata. Sul tavolo c’era ancora il mio piatto di spaghetti con sugo che ormai era diventato tutto un pezzo. Non lo mangiai, non mangiai nient’altro, me ne andai nella mia stanza e mi buttai sul letto. Non mi riuscì facilmente di addormentarmi, ma in fine ci riuscii.
Mi svegliai verso le cinque del pomeriggio con un mal di testa tremendamente assillante, poi m’andai a fare uno shampoo. Dopodiché mi feci una sega osservando una rivista porno. Scesi nella cucina dove mia madre era seduta e stava cucendo una giacca. Mia madre era una brava sarta, mi aveva anche fatto qualche giacca, pantaloni, e camicia. Una volta mi fece anche un cappotto, era veramente bello quel cappotto.
Tirai fuori del frigo un pezzo di salame, tagliai un pezzo di pane, e cominciai a mangiare. Poi mi accesi una sigaretta. Mia madre mi disse qualcosa di serio ma io feci finta di niente. Dopo un po’ mi disse che non avrei dovuto bere più, che il dottore le aveva detto che si moriva col bere, che avrei dovuto smettere anche di fumare, che avrei dovuto smettere di essere quello che ero (che sono). Mi aprii una birra che trovai nel frigo e cominciai a berla mentre me ne ritornavo nella mia stanza. Dopo un po’ mi venne di andare in bagno, dovevo cagare. Così m’andai a sedere sul cesso. Nello stesso tempo che misi il culo sulla tazza sentii parlare una donna che era entrata in casa. Cominciò a parlare di Dio e cose del genere, della bibbia. Di colpo mi venne una stitichezza di quella crudele. Cinque minuti prima ero pronto, anzi, mi stavo cagando addosso, ora ero diventato stitico.
Erano testimoni di Geova, una donna e un maschio. Non ci bastavano i cattolici e tutti gli altri? No! Ci sono anche loro, i testimoni di Geova. Io volevo pensare a una bella fica, ma quella donna Parlava così insistentemente, e mia madre che a sua volta ribatteva con la sua religione che io non riuscivo a pensare a una bella fica né a cagare. Cazzo! Mi stavo incazzando. Mia madre era troppo cattolica per farsi incastrare da quella donna. Poi cominciò a parlare il maschio con una voce grossissima che mi arrivò dritta allo stomaco e lo bloccò definitivamente. Cazzo! Mi arrabbiai. Mi tirai su i pantaloni, mi affacciai alla scala che dava direttamente nella cucina dove c’era la porta aperta, e gridai: “Per Dio, ma volete smetterla con questi discorsi?” Ci fu un silenzio di pietra. Poi mia madre disse ai due che aveva un figlio facile ad incazzarsi e a menare pure le mani, e oltretutto era Ateo. Si inventò tutto all’improvviso per mandarli via: Ogni tanto mia madre mi usava per i suoi fini, e a me in queste circostanze non dispiaceva, in altre invece si. Ad ogni modo. I due se ne andarono e io tornai al cesso, ma non mi riusciva di tirare fuori lo stronzo. Cominciai a sudare, mi sforzavo, ma niente. Poi sentii una signora anziana che sgridava suo marito con delle bestemmie da volta stomaco, e così, grazie a quelle grida da ortolana, il mio stomaco si rivoltò, e mi venne una cacarella bestiale. Mi venne anche un bruciore improvviso allo stomaco, ma tuttavia mi liberai di tutta quella merda.
La signora anziana smise di gridare, mia madre si rimise a cucire, i testimoni di Geova erano spariti, e io riuscii a pensare ad una bella fica, ma di fiche vere non se ne vedevano affatto. Era un periodo grigio, la malinconia non voleva lasciarmi in pace: troppi spinelli, troppe pasticche, troppe droghe, ancora alcol, e niente fica. Ero prossimo a due cose: la pazzia o il suicidio, ma non riuscii neanche a fare una delle due cose. non mi prendevo troppo sul serio.
Ancora ora non riesco a prendermi troppo sul serio, forse perché non lo voglio, o forse perché non lo so, e comunque mi piace così.
In serata uscii di casa, andai a comprare una bottiglia di whisky di basso costo e m’andai a sedere sul prato della villa comunale, in uno dei miei soliti posti di allora. Più tardi arrivò Piero, - era un periodo grigio anche per lui - poi arrivò Enrico, - per lui era grigio già da qualche tempo – poi arrivò Salvo, - per lui non era affatto un periodo grigio – poi arrivò Salvo T. – lui era grigio già di per se. Tutti bevvero nella mia bottiglia di whisky di basso costo, ma nessuno cambiò colore. In fine andammo a farci qualche spinello in macchina, alle vigne del paese. Il nostro paese era Adrano, un paese grigio, così grigio che io riuscivo, riesco anche a starci bene.

domenica 6 novembre 2011

dal mio romanzo Bar Giò

Non sapevo più che inventarmi, quindi decisi di comprarmi un bar. Ero un bevitore, quindi un bar poteva fare al caso mio. Questa la mia unica soluzione. Senza tanto rifletterci su mi feci un mutuo e comprai questo bar che più come avviamento mi piacque il locale. La mente mi autorizzava a credere che ci avrei ricavato delle belle storie da quel bar e quindi mi lanciai come al mio solito di allora illudendomi e sfidando tutte le ragioni.
Mia madre mi disse di no, mio padre non era molto convinto, i miei fratelli tentennavano, per gli altri era discutibile, mentre io più confuso che mai decisi che era si. Quel bar doveva essere il mio nuovo presente.
Lo comperai, e tutte le situazioni burocratiche che dovetti pas-sare, che non voglio proprio raccontate, ma alla fine (o all’inizio) mi ritrovai dentro a questo bar. Caffè Giò, come lo denominai. Ma la gente prese a chiamarlo Bar Giò.
Ergo, gente, accomodatevi prego, benvenuti nel Bar Giò.

Non a te

È toccato a me questo viaggio
Ero lì che non capivo un tubo
Stravagante
A non darla vinta mai
Forte nel mio silenzio di fumo di sigaretta
E guardavo lontano
Laggiù nella notte
Ma non sapevo niente
Bevevo solamente la mia birra
Poi arrivò lei
Questa Eva che mi trascinò nella parte
E da lì cominciai a lottare con me stesso
E con la sua duplicità
Ma scoprii il sesso
In tutte le sue forme e posizioni
Nella voluttà degli andamenti erotici o animaleschi
Ed essendo un singolar poligamo
Mi diedi anche ad altre ed Eve degli altri.
Tutto divenne grande
Immenso
Ma non poteva durare
Era un momento per un uomo
E così la scena cambiò
E divenne una stanza triste
Malinconica
La mia Eva cominciò a seppellirmi
Pezzo per pezzo
Tappandomi le parti con cerotti
Per evitare mi ricrescessero gli arti
Ma venne in mio soccorso uno stolto audace
Che mi persuase ad uccidere Eva
E a seguirlo sulla strada.
Fu una dura battaglia di sopravvivenza
Fra asfalto e filosofia
Di gente sbandata e accomodata
Ma avevo un’arma
Me stesso
Un potenziale sterminatore
Placato solo da una chitarra
Che ritmava nelle mie viscere
E mi ritornava passioni
Che potevano voler dire
Anche finire male
Ma bisognava pure provare
E giocarsi il tutto per tutto
Per vedere fino a che punto
Ce l’avrei fatta..
È accaduto a me questo viaggio
Disceso dalla Danimarca fino a Tenerife
Dove conobbi Eva nel suo Eden perduto
E risalii fino al Pico del Teide
Per vivere la scena del mio lancio
Dall’alto fino al fondo del pozzo
E rimettermi in piedi
In quattro e quattrotto
Mal combinato per com’ero messo
Più perso che mai
Consapevole solo di un punto di vista
Che andava aldilà della ragione comune.
Be’, mi dissi
Non bisogna fare altro che risalire questo pozzo
Non ero un eroe
Ma ero comunque forte di spirito
E ad ogni modo rividi i raggi del sole
Ma accecato dal tanto sbalzo di luce
Ebbi bisogno di un po’ di tempo
Prima di focalizzare le forme
Ma quando la vista mi ritornò ambientale
E mi rimisi in gioco
Fra la gente del tempo
Mi arrivò addosso un’orda di personaggi
Che cercò in ogni modo
Di farmi abbassare la cresta col condizionale
Ma non vi riuscì
Perché ormai ero segnato nelle ossa.
È toccato a me questo viaggio
E lo continuo
E dovrò continuarlo
Fino all’arrivo.

Lettera scritta ad un amico folle Tanti anni fa In un periodo di voglia di comunicazione

A Carmelo [Adrano 20 / 02 / 002]

Ciao Carme. Guarda quanti due zero, zero due, ci sono in questa data. Significheranno qualche cosa? Non credo. comunque poi chissà…
Mi alzo la mattina e bevo gin… e cerco un altro mondo per andar via… (la tua vecchia canzone). Be’, per quanto riguarda il bere, non bevo la mattina già da un bel po’, e non perché abbia deciso di non farlo, ma perlopiù perché la vita con me non ha usato mezzi termini, e mi ha fatto pagare fino all’ultima lira (ora c’è l’Euro e mi farà pagare anche il centesimo) per tutte le male opere (come si dice qui da noi) e l’abuso di alcol, droghe, e sesso. In questi ultimi anni ho bevuto perlopiù la sera. Ultimamente invece ho ripreso anche nel pomeriggio. E pensare che dovrei dare una tregua al corpo e allo spirito già da qualche tempo… Ma non ci riesco e non voglio, sono nella strada giusta per scoppiare o farci il callo.
Ultimamente ho passato periodi terribili. Il corpo si è ribel-lato di brutto, e ho dovuto fargli un bel discorsetto, e pattuito delle condizioni per continuare a stare in simbiosi. Però non ha funzionato sempre, anche perché io ho spesso trasgredito la regola ed esagerato, e tutto se n’è andato a cagare, come un fiume in piena, ho stravaccato gli argini e distrutto qualche cosa.
Questa sera ho bevuto un bel po’ di birra e, tra l’altro sono reduce della sbornia tremenda di ieri sera, (vino e birra) che mi ha procurato un mal di testa per tutta la giornata di oggi. Tuttavia sono ancora vivo. Malconcio ma vivo. sembro una tavoletta di burro; se mi metto sul fuoco mi liquefaccio. Ma al diavolo. Io il mio biglietto l’ho pagato, lo continuo a pa-gare, quindi posso continuare a permettermi di viaggiare, dire quel che cazzo mi pare, e continuare a fare in modo di non farmi svuotare.
Un nuovo mondo per andar via? Be’, questa è storia vec-chia. Lasciamola per i prossimi, se ce ne saranno. Poi, ultimamente, (come già altre volte) che me ne sto tra le mie mura, (che tra l’altro non sono mie) a bere e scrivere, quelle rare volte che esco, (a parte il fatto che non so dove andare) finisco nel solito bar che sai tu, l’ex Giò. E lì, che potrebbe essere il posto dove trovare qualche corpo più vivo, invece trovo solo i soliti morti che, tra l’altro, sono anche rompi co-glioni. Ma lasciamo perdere, anche questa è roba che sap-piamo benissimo.
Qualcosa di nuovo? Quest’inverno è stato buono per scrivere. Ho trovato, finalmente, il modo che cercavo. Poi c’ho questi tre libri, più le poesie, e me li giostro con il variare degli stati d’animo. Se un momento mi sento così vado su questo, se poi lo stato d’animo cambia vado sull’altro, e così via. Ho in mente altri libri da scrivere, però non voglio sovraccaricarmi, prima ho intenzione di finire il libro sul periodo che ho fatto il vagabondo. Il più difficile. Più che altro perché devo ricordare. C’erano troppe droghe e alcol in quel tempo. Con gli altri due è roba diversa, lì non è tanto il ri-cordo, ma quel che mi passa per la testa, roba che per me è come mettermi su uno scivolo e andare giù.
Tu che fai? Scrivi ancora ogni tanto?
Sai, (questa te la voglio proprio dire) la tua donna, Aman-da, mi sembra una tipa in gamba… è diversa dalle altre don-ne che hai avuto, mi sembra più lucida. Forse un po’ ovvia, (forse) in certe circostanze, (potrei anche sbagliarmi) ma credo che sia una di quelle poche donne rimaste ancora don-na. Sai, fra le mie cose trovo spesso donne, e la maggior parte sono solo delle galline. Mi sembrano come la pubblicità. Sono stupide, esagerate, non hanno passione, né tatto. Sono solo femmine… ahahah, uhuhuh, ihihih. Il divertimento, il divertimento… Sempre in cerca di questo divertimento. Ma chi sarà mai questo DIVERTIMENTO che cercano? Tutta-via, anche queste più stupide, io li trovo più interessanti della maggior parte dei maschi. Io la maggior parte dei maschi li eliminerei, e lascerei solo una certa categoria, compresa anche di matti, picchiatelli, ritardati, depressi, e compagnia bella. Capisci cosa voglio dire, no?
Comunque, questa lettera la finisco qua, anche perché più tardi esco con Maria a cercare questo “divertimento”. Se lo trovo ti farò sapere, okay! Io comunque il mio divertimento so dove trovarlo.
Un saluto per Amanda.
Divertiti, e cerca di ridere di più, ma non troppo.

Lettera scritta ad un amico stolto Tanti anni fa In un periodo di voglia di comunicazione

A Valentino [Adrano 15 / 02 / 2002

Premetto che non scrivo una lettera da almeno dieci anni, e forse sono pochi. Pensandoci bene l’ultima che ricordo l’ho scritta per Anna, dopo che l’ho sbattuta fuori dal garage, (il garage? Che follia!) ma erano solo due righe, tanto per dirle che chissà perché la amavo ancora. Allora ero totalmente cotto di questa ragazza. Ma del resto avevo avuto un bel po’ di confidenze, e sesso, parecchio sesso, con lei. Una volta ho persino eiaculato sangue, dopo che ho esaurito tutto lo sper-ma. Non riuscivo proprio a togliermela dalla testa. Comun-que, roba passata. Oggi, aldilà del fatto di tutte situazioni e le sbronze ed i casini, ogni tanto, quando penso, (cosa che cerco spesso di evitare) e mi viene in mente lei, è come se stessi pensando ad un film. Voglio dire, come se stessi ve-dendo un film, e non come qualcosa che ho vissuto io. Del resto, gli anni sono passati, di donne ne ho avute altre, con altre situazioni, più o meno stesse pretese, ma in altre circo-stanze. Al momento ho nel sangue Maria. È una compagna in gamba sai. Gliene ho fatte passare parecchie, l’ho trattata an-che per troppo tempo male, ma lei, in qualche modo, me le ha perdonate. Poi ultimamente, forse per il fatto che la sento distante, forse, (da quando lavora al bar è così) o magari perché la vedo così a suo agio nella realtà, - sai, è una donna forte, non come me che non valgo una cicca – che a momenti mi sento come il suo bambino, piccolo, e non riesco a fare a meno di amarla e odiarla nello stesso tempo. Prendi ieri, per esempio, che per amor di farla godere, a furia di leccargliela mi sono ritrovato con l’attaccatura sottostante della lingua con la bocca (sicuramente la zona avrà un nome specifico, ma a me non viene) in parte lacerata. Quante pazzie fa fare l’amore?! Poi, tra l’altro, lei aveva il raffreddore, e me l’ha mischiato, e oggi mi sento una ciofeca, come dicevamo una volta noi. Ma venendo a noi… cosa combini tu a parte lavorare, scopare, sentire il pianto del bebè, fumare, e guar-dare la tv? Sai, io la tv la trovo stupida. La guardo solo quando non ho dove andare a sbattere la testa. Mi annoia, la trovo banale. Poi ultimamente, almeno qui in Italia, non ha niente di originale, merda su merda; non so se mi spiego. Nell’ora di pranzo si vede i cartoni, ma tutto è nato per i bimbi, loro fanno un casino bestiale se non vedono i cartoni. Poi con quel cartone “Dragon Ball” ci siamo immersi anche noi a furia di vederlo, ma è stato solo un altro appiglio per distrarci un po’ dalla consuetudine. Tra l’altro, in questo ma-re di merda, cosa vuoi che sia un cartone, o una cartina, o la carta igienica, o il tovagliolo, o un fazzoletto? Il fazzoletto ti serve per toglierti il muco dal naso, la carta igienica per to-glierti la merda dal culo, la cartina… dipende dal tipo, o per fumare, o per sapere dove sei… il cartone anche per dormir-ci, o per fare il fuoco, il gioco, o solamente per buttarlo nella spazzatura. Ma comunque sia, niente di sorprendente. Tutto già stabilito. Carta su corpi, fogli di carta, fogli scritti, ma-linconie insolute. Ah Dio, se ci fosse davvero lo sapremmo. Ma abbiamo l’incertezza su tutto, anche sul prossimo risve-glio. Magari non ci risveglieremo più, e forse questa sarà una morte migliore, ma vai a pensare a quale sia la morte migliore… comunque.
Sai, quel libro che sto scrivendo sul periodo quando era-vamo sulla strada sta camminando bene, (bella questa, quel libro sulla strada sta camminando bene; sembra fatta apposta, no?! E invece è venuta così da sola) sono arrivato a quando ero in quella specie di fattoria, da quell’esaurito di Patrizio, nel momento quando è arrivata Petruscka, e guarda caso ora dovresti arrivare tu. Ma non preoccuparti, tu sei l’audace della storia. Ah, guarda che gli ho anche messo quelle volte che ho avuto dei flirt con la tua Gina, ma anche qui non hai da preoccuparti, perché gli ho messo anche che ci provavi sempre con la mia Anna. Come si dice: una mano lava l’altra e tutte e due si lavano la faccia. Però bei tempi quelli, eh! Allora si che eravamo veramente matti. Eravamo una forza, non ci fermava nessuno. Poi, come succede nella vita, è andato tutto a rotoli. Ma al diavolo, che ce ne frega, cazzo, eravamo noi quelli là, l’abbiamo sofferto e vissuto quel tempo. E ora? Ora è un altro tempo. Sai, è come nelle partite di calcio, però con la differenza che in questo gioco non c’è solo il primo e il secondo tempo, ma altri tempi, che in parte crei tu, e in parte la sorte. C’è questo continuo di tempi che va avanti finché la falce non ci mozzerà l’uccello.
Senti: quando scriverai, se lo ricordi, mi fai il favore di scrivere dove te ne sei andato dopo i giorni passati nella fat-toria di Patrizio… perché io non me lo ricordo bene. Mi ri-cordo che te ne sei andato con Patrizio, ma non ricordo se in Germania o in qualche altro posto.
Ora ti lascio, anche perché devo andare al cesso. Comun-que, per la prima lettera dopo dieci anni credo di essermela cavata bene. Io credevo che non ce l’avrei fatta, e invece ec-cola qua.
Salutami la tua donna (scusami ma non mi ricordo come si chiama, io ho una memoria labile). Alla prossima.

sabato 5 novembre 2011

Limitativo

Esco
Anche se vorrei restare qui
A scrivere ancora
Ma poiché non ho molta ispirazione
Esco a vedere se è cambiato qualcosa
Se c’è qualcosa di più interessante per me
Anche se in qualche modo
È come se già sapessi
Che non troverò niente di diverso dal solito
La gente resta comunque sempre la stessa
Sembra che non abbia nessuna intenzione di variare
Be’, peggio per loro
E anche per me
Che a volte non so proprio con chi interagire
Giusto quando ne ho più bisogno.
Ma io esco lo stesso
Ci provo ogni sera
Anche se è più o meno la stessa cosa
A parte qualche piccola variante
Che sembra volere ma non lo fa
O perlomeno lo fa ma senza rischiare
Che si stravolga niente di più di quello
Al quale si è condizionato.
Il genere umano è una balla
Come la terra è una palla
Che gira, gira
Gira intorno a se stessa
Senza arrivare a niente
Illuminata a tratti
Dallo stesso sole
E dalla stessa luna
Mentre un uomo
Seduto su un sofà
Con la sigaretta in bocca
Il bicchiere pieno di vino
E la bottiglia mezza vuota sul tavolo
Riflette sui suoi limiti.
E io esco
Mentre mi girano le balle
Sapendo quel che voglio
Ma non trovandolo.
Il genere umano è limitativo
Gli altri generi non so.

giovedì 3 novembre 2011

Mi brucia il culo

Beh
Eccomi qua
Una bottiglia mezza piena di birra
Alla mia destra
Dove anche tante altre
Vuote
Una sigaretta fra le dita
Della mano sinistra
I polpastrelli delle dita
Di entrambe le mani
Sui tasti della tastiera
Il mio sguardo fisso sullo schermo
Mentre il computer fa uno strano rumore
E Brahms va
Col suo concerto
Per pianoforte e orchestra
n. 2 in SI bemolle maggiore
op. 83
e fuori piove una pioggia leggera
ma costante.
Improvvisamente
Mi viene da urinare
Sbatto le gambe fra di esse
Per resistere un po’
Ma devo andare a svuotare.
Scappo e svuoto la vescica
E sono di nuovo qui
Davanti alla luce della lampada
Giusto sotto il cava tappi
Che dondola
Appeso al chiodo
Senza che nessuno
Senza che io l’abbia smosso
(evidentemente ha una propria vita
o magari per via di forze maggiori)
Mentre mi brucia il buco del culo
Mi fanno male le natiche
Sono le dodici meno venti
Di notte
Non ho un briciolo di sonno
Non mi viene neanche tanto da scrivere
Vuoto la bottiglia
E nel frigo mi sono rimaste
Solo tre birre da 33 cl.
La mia donna dorme
Lei non ha mica la mia malattia
No, ne ha un’altra
E dorme
Mentre io sto qui
Ad ascoltare la musica e la pioggia.
E vado a prendermi un’altra birra
Tirò via il tappo con l’accendino
Faccio un sorso
Un tiro nella sigaretta
(l’ultimo)
Spengo la sigaretta
Mi soffermo un poco
Intanto la pioggia incrementa
E la rabbia mi circola dentro
Senza trovare via d’uscita
Mentre il culo mi brucia ancora di più.
Che vita
Ah che vita!

mercoledì 2 novembre 2011

Traccia, anomalia genetica

Il treno era diretto verso Bologna. Mi cercai uno scompartimento vuoto di prima classe e mi ficcai dentro. Misi la busta che avevo in mano sulla poltrona, sistemai lo zaino e la custodia di fin pelle contenente la mia chitarra Andalusa sul porta bagagli, mi tolsi la giacca, le scarpe, abbassai le due sedie accanto al finestrino e mi sdraiai sopra. Tirai fuori dalla busta la bottiglia di vino rosso e il panino imbottito che avevo comprato in un alimentari con i soldi che mia aveva dato Nat prima che sloggiassi da casa sua. Lei mi aveva ospitato per passare un po’ di tempo a casa sua, magari per il tempo che finisse l’inverno, ma dopo quattro giorni mi resi conto che stavo puzzando più del pesce. Nat era una ragazza gentile, alla mano, pronta a tutte le emozioni, e con una voglia sfrenata di familiarizzare un po’ con tutti quelli che lei pensava tipi OK. Diceva proprio così Nat. Quello è un tipo OK! Naturalmente Nat era il suo soprannome. Il suo vero nome era Natalina, ma siccome lei era una tipa che si considerava underground preferì cambiare il nome e farsi chiamare Nat. Da quando stavo in giro avevo conosciuto un sacco di personaggi con nomignoli bizzarri. Uno si faceva chiamare Spada, l’altro Camaleonte, Zecca, Uncino, e così via. Be’, anche io… ma il mio era solo un diminutivo che mi avevano messo gli altri. Invece di chiamarmi con l’intero mio nome Giovanni, hanno preferito chiamarmi Giò, e col passare del tempo io stesso mi presentavo dicendo Giò. Ma era così, tanto per far girare la trottola.
Tolsi la carta dal panino, me la misi sul dorso, e subito dopo lo attaccai. Avevo una fame bestiale. Nei quattro giorni che ero stato ospite nella casa di Nat avevo mangiato quanto un canarino. Troppo alcol, troppa anfetamina, troppo sballo, e troppe persone, specialmente femmine. Quell’appartamento affittato di Nat era un vero casino. Arrivava sempre qualcuno, e tutti quelli che ci venivano, perlomeno nei quattro giorni che ci sono stato io, arrivavano intenzionati a sballarsi. Poi Nat non era certo una tipa che in casa si faceva mancare marijuana, hashish, alcol, pasticche, coca, e quindi immaginate uno come me, uno che si era buttato dentro di tutto, sostanzialmente alcol, e che non si dava mai per vinto. Tirate il conto e viene fuori il risultato. In pratica in quei quattro giorni a casa di Nat non sono mai stato lucido. Novantasei ore di perdizione continua. Togliendo ovviamente i momenti di sonno. Sì, perché anche trattando di dormire, non è che mi era riuscito di dormire più di tanto. Giusto quando mi stavo addormentando, o persino quand’ero già bel e addormentato, arrivava sempre qualcuno che mi svegliava, anche di forza. C’erano momenti che mi veniva di uccidere qualcuno.
Aprii la bottiglia di vino con un cavatappi che avevo fregato a Nat e feci una bella sorsata. In quell’istante mi bruciò l’uccello, così lo massaggiai un po’ con le dita sulla patta. A casa di Nat avevo preso anche un’infiammazione all’uccello, una notte che mi trovai a letto con due ragazze. Me ne scopai una, (o mi scopò lei. Chi si ricorda) e fu proprio il giorno dopo che mi ritrovai la cappella come ustionata. La cosa più ironica fu il fatto che non mi ricordavo con quale delle due ragazze avevo avuto il rapporto sessuale, e siccome non osai chiederglielo, poi spiegai la cosa a Nat, e lei mi diede del sapone intimo con cui lavarmi l’uccello. Be’, quel sapone fece un po’ il suo effetto, ma l’infiammazione, anche se attutita, mi restò addosso.
Poi tirai fuori le sigarette e me ne accesi una, ma quando feci per aspirare mi venne uno sbadiglio felino. Avevo bisogno di una bella, sana, dormita. Avevo gli occhi che mi si chiudevano da soli. Feci un’altra sorsata dalla bottiglia e poi un altro tiro nella sigaretta. Dopo quella sigaretta avrei posato la bottiglia nello zaino e mi sarei lasciato andare nelle poltrone. Mi sarei fatto tutta una tirata di sonno Verona Bologna. Be’, crollai sì, ma dopo aver vuotato del tutto la bottiglia e fumato un’altra sigaretta.
Alla stazione di Bologna dovette svegliarmi il bigliettaio, prima che il treno ripartisse, perché ero collassato nel sonno. Tutto sconvolto presi lo zaino e uscii dal treno. Solo quando il treno prese a muoversi mi resi conto che mi mancava qualcosa: la chitarra. Lasciai cadere lo zaino, mi lanciai sulla porta del vagone, andai di corsa nel mio scompartimento, presi la chitarra, ripercorsi il corridoio correndo, e saltai giù, finendo a terra come un idiota, nello stupore di tutti gli spettatori. Ma quella che si era fatto qualcosa di serio era di sicuro la chitarra, perché aveva preso proprio una bella botta lei.
“Ehi, ti sei fatto male?” disse qualcuno fra la gente.
“Io no, ma la chitarra credo proprio di sì.” Dissi rivolto, ma sostanzialmente a me stesso.
Ero ancora troppo sconvolto dai quattro giorni passati a casa di Nat.
Tirai giù la cerniera della custodia e vidi che si era staccato il ponte della chitarra. Cazzo, ora col cavolo che potevo pensare di fare qualche moneta suonando la chitarra. Be’, quel che mi sarebbe servito sarebbe stato un po’ di colla da falegname. Ma c’erano i falegnami a Bologna? Certo, un falegname lo si trova dappertutto. Be’, per il momento, dopo essermi dato una sciacquata nei cessi pubblici, mi misi a fare un po’ di colletta. Giusto i soldi per una cioccolata calda corretta con grappa. La gente si è sempre sprecata. Il fesso ero solo io, che anche da vagabondo davo soldi ad altri vagabondi, barboni, e gente da strada in genere. Una volta diedi anche trecento lire ad un borghese che me li chiese perché il tabacchino non aveva gli spiccioli da tornargli. Ma lui non è che in cambio mi diede una cinquemila, no, lui se ne uscì con un grazie, senza neanche rendersi conto, o magari facendo finta, che io con quelle trecento lire in meno mi ero giocato un panino, e quindi un pasto. Solo chi è povero sa cosa vuol dire essere in grana. Quando si è abituati alla grana non si bada più ad altro, a parte il cercar altra grana naturalmente. Ah se avessi ascoltato mio padre, sarei divenuto anche io uno con la grana sempre in tasca. Invece avevo scelto, o forse mi ero ritrovato per quella strada. Come a casa di Nat, non mi mancava niente, avevo proprio tutto, alcol, compagnia, divertimento, persino soldi che lei mi lasciava, femmine, eppure io non riuscii a fare a meno di fare il guasta feste. Ce l’avevo proprio nel DNA. Traccia, anomalia genetica.
Uscii dal bar, con la cioccolata calda in corpo, andai a sedermi su una panca, mi accesi una sigaretta, e mi sbracai in una forma di quiescenza.
Non riuscivo a decidere il da farsi, se andare alla ricerca del falegname lì a Bologna o se non era meglio scendere fino a Roma, e cercarlo li il falegname, poiché in quella città avevo più dimestichezza. Be’, per il momento decisi di uscire dalla stazione ferroviaria e fare un altro po’ di colletta. Questa volta la colletta fu più fruttuosa, così decisi di andare in un’enoteca che già conoscevo, comprare una bottiglia di vino, un panino in qualche alimentari, e se non mi fosse successo niente di particolare lungo la strada del ritorno fino alla stazione, prendere il primo treno diretto a Roma.
Arrivai nell’enoteca, aprii la porta, ed entrai dentro. C’era solo il proprietario dentro.
“Ehi.” Mi fece “Di nuovo nei paragi?”
“Già.”
“Sempre di poche parole tu.”
“Be’, se mi sentisse quando attacco a parlare potrebbe chiudere bottega.”
“Perché?”
“Eh, perché… perché potrebbe prenderci gusto.”
“Ah sì?”
“Già.”
Mi misi ad osservare le bottiglie qui e là fra le mensole.
“Sempre il solito vino buono a poco prezzo o è un’altra di quelle volte che ti sbilanci?”
“Be’, di lei mi sono sempre fidato… a parte una volta che mi ha tirato una fregatura… ma sono cose che capitano nel commercio.”
“Ti intendi anche di commercio tu?”
“Provengo da una famiglia di commercianti io, e poi sono cresciuto nella bottega dei miei nonni.”
“Che tipo di bottega?”
“Generi alimentari.”
“Ah! E allora che vino ti prendo?”
“Buono a poco prezzo.”
Mi diede una bottiglia di Chianti a poco prezzo. Salutai il mio amico venditore di vini e tornai instrada. C’era un alimentari più in là. Entrai e comprai due panini imbottiti. Uno lo attaccai mentre ripercorrevo la strada verso la stazione. L’altro lo lasciai nella busta dove c’era anche la bottiglia di vino. Lo avrei consumato più tardi.
Vidi una farmacia. Entrai e domandai quando costava un detergente intimo efficace per le infiammazioni. Il medico mi chiese di che stato fosse l’infiammazione. Gli spiegai un po’ la faccenda.
“Allora ci vorrebbe una pomata, ma prima dovrebbe farsi vedere da un medico.” Fece il dottore.
Gli dissi di darmi una pomata generica e che non costasse troppo, anzi, che costasse poco. Il tipo mi osservò ancora un attimo con curiosità e poi mi diede una pomata. Guardai prezzo. Non era troppo, ma per me era comunque alto. Ironicamente dissi al tizio se non poteva farmi mica uno sconto. No, non mi fece lo sconto. Vabbé, pagai e me ne andai.
Nei cessi della stazione andai a mettere un po’ di quella pomata nella cappella. C’era un piccolo inferno sulla zona.
Alla fine decisi che avrei aggiustato la chitarra a Roma. Così poi presi un treno diretto a Roma Termini. Mi trovai uno scompartimento solitario e mi sbracai sulle poltrone. Avevo il vino, avevo il panino, ero felice. A parte quell’inconveniente fra le mutande.

Io perlopiù sono solo anche quando sono in compagnia anzi, sopratutto quando sono in compagnia!

martedì 1 novembre 2011

Da: Il vagabondo; poesie

Avvoltoio


Qualcuno è volato ad est
Vale è volato ad ovest
Placido non ha voluto volare
e io sono divenuto un condor
e volo
con i miei piedi
sopra le strade di Roma
per le vie di Villa Borghese
quelle di Villa Ada
e Piazza di Spagna
e Piazza Navona
e via…
e prendo tutto ciò
che riesco ad afferrare
sia dai civili
che dagli altri vagabondi
e la chitarra è la mia spada
una spada che non ferisce
ma resuscita
queste carcasse umane
ed anche me.